Non
dissi a mio suocero, che usciva molto presto la mattina, che sarei andato a
Racalmuto. Non pensavo che avrei dovuto far tesoro, per le mie inchieste, di sue
eventuali conoscenze.
Giunsi nel piccolo centro a un’ora discreta del
mattino. Dovevano essere le dieci. Ricordo il sole già alto nel cielo intenso d’azzurro,
e il suo riverbero accecante sulla pietra bianca della chiesa madre, la piazza
ampia dove avevo parcheggiato la macchina, il torrione smozzicato da un lato e
dall’altro la scalinata del Carmine con plaghe d’ombra.
La piazza. Era lì – pensavo – che avrei dovuto trovare miei informatori.
Tre amici discutevano tra loro nel sole. Mi
sembrarono subito le persone giuste. Furono gentilissimi. Volentieri avrebbero
partecipato all’inchiesta, ma stavano per andar via. Perché non andare da quei
vecchietti seduti al fresco su per i larghi gradini della scalinata della
Madonna del Monte?
Il consiglio fu splendido e lo seguii subito.
Di lì a qualche minuto mi trovai di fronte a un’altera
figura di zolfataro in pensione. Era seduto al fresco, immerso nei suoi
pensieri, teneva in mano un bastone in modo quasi ieratico, mentre un’antica
consapevole fierezza gli sprizzava dagli occhi azzurri, ora a me attenti, accentuata
dalla sua posizione centrale sul largo gradino.
Chi meglio di lui?
Non sapemu nenti!
Rispose
cortesemente al mio saluto, ma non restò convinto dal fatto che qualcuno, il
ragazzotto che potevo allora sembrare, spacciandosi per un professore universitario,
potesse avere interesse nientemeno che per il dialetto. Furono questi i
pensieri che gli frullarono in testa nel baleno che guizzò nei suoi occhi e
nella risposta con la quale scoraggiò immediatamente la continuazione del
dialogo.
Che mi rivolgessi al vicepresidente del Circolo
che era lì a due passi, peraltro incuriosito dalla mia presenza e ormai pure
lui sul chivalà.
Lo feci, mi rivolsi a lui, ma mi disse a sua
volta di rivolgermi al presidente, anche lui attento all’insolito estraneo,
dall’interno del circolo. Il presidente non poté rimandarmi a nessun Erode o Pilato
e con un secco Non sapemu nenti! inibì
ogni possibilità di conversazione.
Inutile far presente che provenivo da Castrofilippo,
che mio suocero era di Castrofilippo e che volevo solo conoscere parole
dialettali. La sua risposta non ammetteva replica.
Che fare?
Demordere no!
Mi restava l’alternativa del parroco, la speranza
che questi fosse originario del luogo e che fosse disposto ad ascoltarmi.
Tornai in piazza ed entrai nella chiesa che era
ancora aperta. Il prete era del luogo. L’Arciprete, padre Alfonso Puma – un
intellettuale seppi poi, un raffinato pittore, amico di Sciascia – capì subito
quel che volevo e si mise a disposizione.
Ne fui felice.
Ma fu felicità che durò poco. Di lì a mezzora padre
Puma mi disse che, suo malgrado, avremmo dovuto interrompere l’inchiesta per un
suo impegno. Un funerale, mi sembrò di capire.
Gli dissi che avrei aspettato che finisse la
funzione e che, comunque, sarei potuto
tornare nel pomeriggio, l’indomani e poi ancora negli altri giorni della
settimana.
Dispiaciuto, mi disse che non gli era possibile
incontrarmi prima di una decina di giorni, non ricordo per quale suo impegno in
curia, ad Agrigento.
L’incontro risolutore
Ero davvero rammaricato
e stavo per salutare ed andare via, quando vidi brillare d’un sorriso il
faccione abbronzato del sacerdote per l’ingresso di un signore in sacrestia. Me
lo presentò subito. Un avvocato del luogo e anche… l’assessore alla cultura del
Comune.
Nessuno meglio di lui per
accedere alla simpatia dei racalmutesi, pensai. Ed era quello che aveva già pensato
l’Arciprete.
Il passaggio di consegne fu immediato e poco
dopo mi ritrovai sulla strada in direzione della scala dei vecchietti e,
inspiegabilmente, a braccetto dell’assessore. Mi rifiutai di tornare dai nostri
vecchietti, raccontando all’assessore dell’incontro poco felice di qualche ora
prima.
E l’assessore affabilmente, ma fermamente:
– Professore, Lei vuole fare l’inchiesta?
Una domanda retorica che mise subito a tacere il
mio orgoglio.
Giunti di fronte ai vecchietti – altri se ne
erano adunati attorno a quello con gli occhi azzurri –, mi ritrovai con la mano
dell’assessore sulla spalla che mi presentò dicendo:
– Questo è amico mio. Parlate pure!
La sua strategia, a braccetto prima e poi con la
mano sulla mia spalla, mi fu subito chiara.
Parlammo, parlammo a lungo. Esaurii in più
giorni i questionari del Vocabolario
Siciliano. E il vecchietto dagli occhi azzurri sostenne con gioia e fino
alla fine la conversazione.
Diventammo amici. Mi chiese dove abitassi –
forse nella stessa Racalmuto, pensava, visto che tornavo due volte al giorno e
per più giorni. Fu felice di sapermi a Castrofilippo, dove conosceva tante
persone.
Li favi e la farrubba
Proprio
l’ultimo giorno, quando il sole picchiava sulla scalinata del Monte e stavo per
andare via, mi accorsi di una domanda non fatta: le fave, come chiamate le
fave a Racalmuto?
La domanda la posi per scrupolo. Che risultato
avrei potuto aspettarmi?
E il vecchietto mi rispose: – Li favi.
Subito dopo, PERò, mentre un lampo geniale gli
guizzava negli occhi:
– Ma lo sa che al quartiere Carmine si dice li havi?
Fortuna che l’ora era ancora buona e potei
correre subito al Carmine, dove non incontrai informatori disponibili, ma uno
studente dell’università di Palermo, Piero Carbone, ora raffinato poeta in dialetto,
che subito e poi anche nel pomeriggio mi accompagnò in giro, a sentire la gente
parlare.
Non trovammo subito li havi, ma qualcuno volle però offrirci lu cahè e ascoltammo tutte le persone che potemmo per la via
centrale e per i bar con l’impressione che la gente ci mettesse poco forza
nell’articolare la f, in qualsiasi
posizione.
Poi, prima di rientrare a Castrofilippo, entrai
nella farmacia locale, per comprare i pannolini al mio bambino.
Qui, un vecchio rinsecchito dal sole, mostrava
nello sguardo la sospensione di un dialogo già avviato con la farmacista.
Infatti, quando questa tornò al banco, porgendogli il piccolo involto, gli raccomandò
con voce suadente:
– Se le deve fare le iniezioni, se le deve fare,
se vuole guarire!
E lui, di rimando, sicuramente convinto dall’esortazione
della farmacista:
– Mmah!…
Ca si mi l’à-hhari mi li hazzu! Mah!…
che se me l’ho a fare, me le faccio!
Non disse più nulla, ma fu per me quella risposta
la testimonianza più bella, la prova più stringente di quel suono: l’h invece dell’f. Più ancora del cahè
degustato qualche ora prima.
Comunicai a Piero Carbone il mio ritorno a
Racalmuto per l’indomani e approntai nella notte un questionario specifico.
Incontrammo – l’indomani – una persona di cui
serbo grata la memoria, il prof. Nicolò Macaluso, insegnante elementare in
pensione, che ci portò a casa e collaborò attivamente all’inchiesta, insieme
alla moglie, pure lei maestra in pensione. Conoscevano bene quella pronuncia e
ne facevano uso.
Conclusioni dello studioso
Raccolti
tutti i materiali possibili, mi era ormai chiaro che a Racalmuto la doppia
pronuncia harrubba/farrubba era il diverso modo di di
adattare l’ar. h a r r ū b: varianti fonetiche che non escludono, nell’area, il
tradizionale e più diffuso carrubba:
tre pronunce che in tempi diversi si sono contese la palma della popolarità,
salendo e scendendo sul podio dell’uso varie volte. Come avviene ancora a
Pantelleria, dove le tre pronunce hanno rilevanza sociolinguistica.
La stessa cosa è avvenuta a Ragusa – da lì
eravamo partiti – dove si sono contese
il campo forme con f e forme con k. Da disapprovare le forme con f perché sentite come contadinesche. Al
punto che anche fasola con f etimologico poté diventare casola.
Il problema di Ragusa si era risolto a Racalmuto. E grande fu il merito del
vecchietto racalmutese dagli occhi azzurri, che non ebbi più modo di
ringraziare.
Dopo qualche anno, a un incontro culturale a
Racalmuto, ho potuto raccontare l’intera vicenda. Il caro vecchietto non c’era.
E l’f
per k, oltre che h, non è solo la risposta siciliana alle parole dell’arabo che
presentano un suono per così dire “aspirato” (ma fricativo velare o postvelare
in realtà), ma anche a parole bizantine, del francese antico e dell’inglese
d’America con analoghi suoni, come poi ebbi modo di illustrare in un lavoro che
vide la luce nel 1995, sul num. 18 del “Bollettino del Centro di Studi filologici
e linguistici siciliani” (pp. 279-93): un fenomeno che è molto più di
“un’alterazione seriore e meno avvertita” come aveva scritto più di un secolo prima
Corrado Avolio, se di esso bisogna tener conto – la letteratura non è avara –
nello studiare il contatto delle lingue romanze con altri sistemi linguistici.
Salvatore
C. Trovato
(Università di Catania)
Il post, riveduto dallo stesso autore e adattato
a un pubblico non specialista è pubblicato nella sua redazione originaria nel
vol. Per i linguisti del nuovo millennio.
Scritti in onore di Giovanni Ruffino
a cura del Gruppo di ricerca dell’Atlante Linguistico della Sicilia, Palermo, Sellerio, 2011, pp. 93-99. Nuova è la titolazione e la stessa
paragrafazione.
Vivo in Calabria. Nel catanzarese si dice a himmina, u hafè.
RispondiEliminaAlberto
Padre Puma era un uomo avanti,
RispondiEliminami ha fatto piacere leggere di lui.
giusi
Interessantissimo articolo, spero poter leggere il libro consigliato
RispondiEliminaMi complimento col prof. Trovato,che purtroppo non conosco, per la grande competenza e la semplicità nello scivere. Articolo molto piacevole, da leggere tutto d'un fiato.
RispondiEliminaMaria