Ho letto, sul blog dell’amico
Scimè, l’articolo sull’ultimo libro di Gianni Riotta “Le cose che ho imparato”
e incuriosito ho spulciato anch’io in rete, leggendo qua e là le recensioni. La
convinzione che mi sono fatto è che il Riotta, nel suo libro, abbia dato una
visione distorta della sua Sicilia e dei siciliani. Da una parte si legge una
storia di bambino forzatamente affettata e piena di forme e di azioni che non
convincono il lettore attento; molte scene sembrano messe lì più per colpire
che per raccontare una verità vissuta. Dall’altra si legge la voglia di un
Riotta di estendere le sue capacità giornalistiche (per la verità sempre
asservite ora a questo ora a quel potente), oltre i limiti di una terra che
rischia di dare poco a chi ha più che ambizioni, voglia di arrivismo. E questo
lo si percepisce scrutando l’intimo dello scrittore che sogna fin da bambino la
“Merica”, come lui stesso scrive. Infine, come a tacere un senso di rimorso di
una persona che avverte di aver tradito una terra che gli appartiene o, meglio
lui appartiene a questa terra, parla del padre, giornalista anche lui, che gli
ha dato l’imprinting che Riotta non ha mai tradito, che ha sempre coltivato,
tanto da reputare che la differenza tra lui che è andato via e il padre che è
rimasto, non ci sia.
“ Chi esce riesce ma chi non esce riesce se esce da certi schemi,
pregiudizi…..:”
Questa è l’unica frase vera:
uscire non tradendo quella che è l’appartenenza, non rinnegandola e non
ostentare un successo avuto fuori dalla tua terra. Rimanere elevandosi oltre i
confini di un paese, un quartiere, una casa. Capire che la mente deve spaziare.
Uscire, riuscire ma non dimenticare e fare, se si può fare, per la nostra
terra, quello che possiamo fare.
Racalmutese Fiero
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