lunedì 30 luglio 2012

“LAVANDAIA” PER MODO DI DIRE


Giovani o meno giovani, poco importa, nubili o sposate, esse prelevavano la biancheria dalle case dei signori, la riponevano in grosse ceste o cufina (dall’arabo “quffa”) che portavano in perfetto equilibrio sulla testa protetta dalla spara o ciambella di stoffa, e s’avviavano al lavatoio. Sovente sorreggevano, premendola al fianco, una quartara, e porgevano la mano libera al figlioletto piagnucolante. Per consolare quel pianto, distraevano il figlioletto assonnato con indovinelli o dubbii, cunti, filastrocche e tiritere.
Giunte al Raffo, o alla Fontana, o al Saraceno, li lavanneri si disponevano in semicerchio attorno alla giebbia (vasca fatta di muratura contenente acqua, dall’arabo “ğabiya”, riserva d’acqua, in genere di pietra, per i cammelli), ciascuna nel suo spazio riservato, al Raffo non si pagava, al Saraceno invece sì perché era proprietà privata: nel periodo dell’ultimo dopoguerra, la mamma di don Rocco, raccolta nel suo scialle, esigeva le quote.
Quindi, le nostre protagoniste si apprestavano con solerzia al lavoro, senza l’ausilio dei moderni detersivi. Le più attrezzate impiegavano la scebba (dall’arabo “šabb”  “šabba”: “cenere di scorze di mandorle, utile per il bucato”), altre una locale pietra calcarea bianca, lu trubbu (forse dall’arabo “turb”: terra, polvere). Oppure, sbattendo energicamente sulla balàţa (dall’arabo “balata” lastra di roccia nuda e liscia leggermente inclinata) le lenzuola attorcigliate, come se  stessero spaccando pietre con la mazza, queste progenitrici della lavatrice ricavavano un bucato bianchissimo. Per completare la descrizione: quando l’acqua della gièbbia era troppo sporca, veniva fatta defluire completamente rimuovendo lu mazzu, una sorta di tappo costituito da un piccolo tronco che veniva collocato nella parte più bassa del muretto che recintava la gièbbia.
            Costrette a stare sul bagnato, le lavandaie alzavano le gonne per non bagnarle, lasciando intravedere le segrete nudità delle ginocchia. Le più guardinghe, o più ardite, assicuravano con gli spilloni i lembi inferiori della veste molto al di sopra del ginocchio, noncuranti di scoprire le macchie lattee delle cosce bianche “come la carta”. Costituivano, manco a dirlo, esca allettante per sguardi di aitanti picciuòtti.
            Qualche lavannera, trascelta nel gruppo, tra le meno giovani, una volta designata, veniva fatta indispettire con filastrocche allusive e maligne, scandite, sillabate dagli immancabili monellacci:

La zza Maria cu li piedi chiatti
va assicutannu li picciuttieddri schietti;
nn’assicutà unu a dicidott’anni:
uocchi cilesti e capiddri biunni.

            La rispondiera zza  Maria, una di quelle donne che, come tante, le responsabilità della vita aveva mascolinizzato, – avrebbero potuto portare i pantaloni, – che si fumava, come si soleva dire, la sigaretta, e se c’era da santiàri, santiàva fino alla blasfemia, non faceva tardare la risposta: - Eh, galiuòti, figli di mala matri! Nni la vucca v’av’a  viniri.
            Risposte risentite, lanci di pietre e inseguimenti movimentavano la routine delle lunghe giornate di lavoro. Subito dopo, la richiesta a quei monellacci vastasi di un qualche servizio (il porgere una cesta piena di pesante biancheria o badare a qualche moccioso piagnucolante figlio di questa o quella lavannera, placava la breve, intensa collera della zza Maria.
            Dopo la tempesta veniva la quiete. Si riprendeva, quindi, a lavorare tra i canti: con rafforzata lena. Era, quello spettacolo, un carosello di caleidoscopiche passioni, di caparbie sofferenze, di tenace attaccamento alla vita.

Così ogni giorno. Così per tante lavandaie. Di cui restano solo i nomi:

Maria Aquino
Anniddra la Palumma
Filumena
La Savarina
Za Vicenza la Sbirriddra detta anche la Paradisa
Liddra la Marrabbina
Alfonsa Sicurella
Zza Ntò
Maria la Gruttisa
Antonia Rinallo
Genia la Papùra
Pippina la Zzaccaneddra
Minimineddra
La Poli
Rosa Randazzo
La Ciuciù
La Cinnireddra
Zza Caluzza
Maria la Palerma
Zza Ntònia la Capitana
Mariuzza Santangelo
Angilina la Pucinara
La zz Ntonia la Narbuna
Zza Maiuzza Pagliareddra
La Conti

Riservate, sguaiate, pudiche, audaci, castigate, insolenti, dolcissime, indurite, cosa bbona, sciarrièri, laboriose, instancabili, di carattere… erano le lavandaie.
            Per tutte, ricordiamo quelle dell’ultima generazione, a testimonianza di un lavoro dimesso e meritorio. Rappresentavano l’igiene di un paese: ora ci sono le lavatrici, è vero, ma ci si imbatte in sporcizie mimetizzate che le macchine non riescono ad eliminare del tutto, ci vorrebbero i metodi antichi di sbattere e controsbattere i panni ancora intrisi su un pietrone per eliminare il nerume dell’acqua sporca.  Dio solo sa quanto utile e necessario sarebbe ancora oggi, oggi più che mai, il loro lavoro. Ne ricaverebbe salubre utilità la collettività tutta.

             Certo, adesso le lavandaie non esistono più, ma è rimasto il modo di dire essiri na lavannera, che rimanda ad un modo di essere, specialmente quando si eccede nel linguaggio;  purtroppo, troppo spesso, ascoltiamo le colorite esternazioni di qualcuno come se fosse “una lavandaia” intesa nell’accezione popolare ed estremizzando il termine. Comportamenti che da alcuni vengono tollerati e giustificati come abitudini di determinati individui, modus vivendi che ci lascia sbigottiti quando investe, nel generale aspetti della vita sociale e culturale che esprimono libertà e democrazia. Vorremmo ricordare quelle lavandaie, quelle di un tempo che andavano alle fontane e, anche se cantando, usavano vocaboli eccessivi, avevano nel cuore sentimenti puliti e mai violenti.

Di quelle ci rimane un nostalgico ricordo, delle lavandaie moderne ci resta solo il biasimo.

                                                                                              Piero Carbone
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17 commenti:

  1. Una fotografia chiara, limpida, puntuale, particolareggiata, vera di un'epoca ormai trascorsa e irripetibile.
    Si è soliti dire che con passare del tempo si va avanti nella strada del progresso. Quale progresso? forse quello della conoscenza, della scienza. E quello umano? Quello dei rapporti umani? Non se ne parla: probabilmente per il fatto che se se ne dovesse parlare si dovrebbe fare riferimento a una "pinninata" "comu l'acchianata di lu Signuri".
    Siamo orgogliosi di un cronista locale di tale talento.

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  2. Buongiorno Piero,
    ho letto il tuo interessantissimo articolo. Complimenti. Mi farebbe piacere avere qualche informazione in più circa la "giebbia di lu saracinu". Conoscere il perchè fosse privata e se ancora esiste. Con molta probabilità, molti giovani non conoscono l'esistenza della "giebbia" e ciò che, un tempo, vi si svolgeva.
    Grazie, saluti
    Angelino

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    1. Dovrebbe ancora esistere. Una foto del lavatoio del Saraceno risalente al 1988 si trova nel mio libro A lu Raffu e Saracinu. Mi ha sempre colpito a suo tempo il fatto che Raffo e Saraceno erano nominati insieme, quasi fossero inscindibili, come Castore e Polluce, Eurialo e Niso. Un modo di dire insomma. Invece ho poi scoperto che il Saraceno esisteva veramente nella realtà. Il nome era di dominio pubblico ma il lavatoio sera proprietà privata. Mi hanno riferito, e lo riporto nel libro, che nel dopoguerra il proprietario don Rocco vendesse i gelsi di un albero lì nei pressi.
      Nel rispondere alle tue domande colgo l'occasione per ringraziare quanti stanno apprezzando questo post.
      P.C.

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    2. Grazie Piero per la risposta. Un'ulteriore domanda: ma nel tuo libro,trovo maggiori dettagli sul "saracinu"? E ancora: "lu raffu e lu saracinu", sono vicini?
      Saluti
      Angelino

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    3. Risposte affermative. Ma per caso hai assistito alla rievocazione di carrettieri e lavandaie fatta nel 1986 e nel 1988? C'è stato un corteo che partendo dal Ponte del Carmelo ha attraversato via Roma, un tratto di Corso Garibaldi, è sceso al Raffo ed è risalito per arrivare alla Fontana di novi cannola dove ha avuto luogo la rievocazione di antichi mestieri e una commedia musicale sulla storia di due carrettieri che si contendevano il cuore di una bella lavandaia.

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    4. Purtroppo no, in quel periodo ero militare. Oggi, a pranzo, ho raccontato la tua storia a mio figlio, nove anni, a qualcuno, forse, sembrerà strano che un ragazzino fosse interessato a storie passate del nostro paese. Ma l'amore, in lui, per Racalmuto, è scaturito dal fratello più grande, che gli ha inculcato questo. Infatti Giovanni, aveva un forte amore e interesse per il suo paese. Tu dirai: "ma tutto ciò cosa c'entra?" Per me è importante quello che fai tramite Castrum Racalmuto Domani. E' giusto che i nostri figli sappiano cos'è la "giebbia" e conoscano luoghi come "lu raffu". Il nostro paese è ricco di storia ed è giusto che la memoria non venga cancellata, ma possa tramandarsi nei giovani. In tal modo potremo far nascere in loro la passione e l'amore per questo nostro paese.
      Angelino

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  3. Sei forte Pierino
    MARIA !!!

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  4. Lillo Mendola
    Grazie Piero, ci hai fatto sentire "lu sciafuru" di un tempo semplice ,senza ipocrisie dove ognuno assolveva al proprio compito nel miigliore dei modi.grazie per il recupero di sensazioni perse nei rivoli dell'arida modernità.

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  5. ...come sempre riesci con garbo e leggerezza a rievocare pagine di " storia " locale non dimenticando , pero' ,di farci riflettere....grazie !
    Tina Ferlisi

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  6. l'articolo è decisamente interessante! Se fosse possibile sarebbe bello avere altre informazioni al riguardo!

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  7. Caro Piero...bella rievocazione e saggio accostamento...del tipo cu si la senti stringi li dienti!!! Non sarebbe male, considerata la tua bravura, se qualche volta ci parlassi anche di li Tavirnara!!! "Ova cirusi e Vinu", ne è passato del tempo, oggi vi sono gli hot-dog, la PPorchetta, la birra bionda e bruna, la COCA-cola,il biancosarti...e l'Accqua... strano oggi anche l'Acqua può ubriacare...

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    1. Gentile anonimo,
      sollevo l'autore dal rispondere ad una richiesta che potrebbe sembrare disattenta, in quanto Piero Carbone, si è occupato della materia da lei richiesta, su questo stesso blog nel post del 2 maggio: " c'era una volta...le putìe di vino (e le parole spente)".
      Grazie, comunque per il commento
      Salvatore Alfano

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  8. Bellissimo articolo, ma per onore di cronaca, bisogna ricordare che,
    allora si usava lavare i panni con il sapone fatto in casa (la liscia), questo veniva usato per pulire la biancheria, i piatti, i pavimenti
    e per la pulizia personale ecc.
    Il sapone liquido si otteneva facendo bollire, a fuoco lento, acqua e cenere (di legna).
    Invece per ottenere il sapone molle, si mescolava residui di olio di oliva e cenere (di scorza di mandorle verdi).
    Alla fine, dopo aver lavato i panni con la liscia, venivano trattati con l'azolo (polvere azzurra) in questo modo i panni che si asciugavano al sole,
    assumevano un colore bianco abbagliante.
    Enzo

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  9. Quella che descrive enzo era la "scebba"

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  10. Credo che la "scebba", si otteneva mischiando: residui di olio di oliva, cenere (di scorza di mandorle verdi) e pezzi di pala di fico d'india.

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  11. Piero Baiamonte
    ottima espressione della memoria e della vitalità popolare attualizzata al contesto odierno lontana dalle schermaglie personali che producono immobilità...complimenti Piero.

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