Con la guerra di secessione negli USA, il
presidente Lincoln mise fine ufficialmente
al fenomeno aberrante della schiavitù.
Purtroppo non fu così anche in Sicilia. Voglio raccontarvi la storia dei
piccoli schiavi che sino al 1930 circa erano presenti in Sicilia, in particolare, nelle province di Enna,
Caltanissetta e Agrigento. Luigi
Pirandello ci racconta di uno di loro, Ciàula; nella novella questo ragazzo,
un poco cresciuto per la verità, ma trattato ancora come tale a causa del suo ritardo mentale, rappresenta la schiavitù, e la luna che Ciàula scopre una notte uscendo dalle
viscere della terra e che lo commuove sino alle lacrime, rappresenta la luce
della libertà e della civiltà. Ma chi
erano quei ragazzini che vivevano come Ciàula? Da dove venivano? Li chiamavano “CARUSI” e venivano dalla miseria assoluta, figli di famiglie
numerose dove la sopravvivenza non era affatto garantita. Le catapecchie e i tuguri dove vivevano di
solito si trovavano nelle sperdute campagne ed era qui che i proprietari di
miniere di zolfo o i loro incaricati (i picconatori) si recavano per reclutarli
o dovremmo dire comprarli. Chiedevano al padre se aveva qualche “CARUSO” , come se stesse parlando di
un attrezzo da prendere in prestito, da dargli; garantiva nutrimento e vestiario per il
ragazzo e, in più, avrebbe erogato un “prestito
babbu”. “PRESTITO BABBU”, così lo
chiamavano, per camuffare l’acquisto di uno schiavo a tempo determinato. Tutti i Siciliani sanno che “babbu”
significa stupido, incapace, inutile; quindi, se un debito è una cosa stupida,
inutile, si intende che entrambi le parti sanno che è un pro forma chiamarlo
debito e che non sarà mai restituito.
Era il modo per camuffare un commercio di uomini, anzi, di ragazzini,
quello che era a tutti gli effetti la compravendita di uno schiavo. Questi
innocenti, passavano dalla miseria alla prigione della miniera, senza diritti,
privati persino dell’unica cosa che avevano, l’umanità. La maggioranza di questi ragazzi senza
infanzia, non tornavano mai più alle loro case, perché perivano nelle miniere,
dove erano costretti a lavorare completamente nudi per almeno dodici ore al
giorno, sfruttati come bestie, frustati come bestie, e come bestie costretti ad
intrufolarsi in quei piccoli cunicoli dove solo loro potevano arrivare e poi a
trasportare il minerale in superficie. Questo logorio segnava per tutta la vita
i CARUSI, causando loro malattie
agli occhi, rachitismo, deviazione alla colonna vertebrale. Quei pochi che
arrivavano alle visite militari, venivano riformati. Fu nel Novembre del 1881 che nella miniera di
Gessolungo lo scoppio del “grisou”
fece 65 vittime, furono recuperate 49 corpi di cui 19 erano di “CARUSI” (bambini dagli 8 ai 14 anni).
Fu in questa occasione che fu creato un cimitero apposta per loro in un terreno
privato vicino alla zolfara, che tutti chiamavano il cimitero dei CARUSI. La
giustizia, non quella di Dio, quella ingiusta degli uomini era quasi sempre
latitante, ricordiamo di una delle
pochissime cause intentate contro i proprietari delle miniere, quella di
Lercara. Al giudice che lo guardava con
occhi rossi di commozione, un CARUSO Beniamino Minutella disse: “ Ero addetto a scavare col piccone il piano dei fossati, per abbassarne
il livello al fine di procurare la fuoruscita dell’acqua. Per tale lavoro ero
costretto a stare con l’acqua che mi arrivava ai ginocchi”. Un altro
aggiunse:”Succede spesso che il Ferrara,
alle nostre rimostranze perché non ci fornisce di stivali, ci risponda “State
lì a crepare nell’acqua fino a farvi schiattare il cuore." Un altro testimoniò: “Ero addetto al riempimento dei vagoncini dietro i forni a mezzo di
sacchi. Ogni sacco contiene tre calderelle di zolfo, quindi più di 60 chili.
Venni licenziato perché un giorno il sorvegliante pretese, alla fine del
lavoro, che io portassi a spalla dall’interno all’esterno tre fili di ferro
pesantissimi che io, essendo stanco, mi rifiutai di portare. In tale occasione,
il predetto mi diede dei pugni alla mascella, cosa che del resto aveva fatto
altre volte e mi licenziò”. La
deposizione di Lorenzo Benedetto, anni 13:
“Lavoravo al riempimento dei calcheroni alla miniera Di Stefano, dalla mattina
alle 6 fino alle 18. Per arrivare alla bocca dei forni bisognava salire 70
gradini. Sono stato percosso spesso da Giuseppe Modica. Questi un giorno mi
diede un colpo di cinghia alle spalle. Essendo caduto e avendo il Modica
creduto che lo facessi apposta, mi colpì al viso con un calcio, mentre mi
trovavo a terra...". Scusatemi,
non riesco a continuare l’elenco, ma non voglio assolutamente nascondervi
quello che dissero gli aguzzini a loro discolpa. “ Tutta questa campagna di odio e di menzogne è stata architettata
contro di me e la mia famiglia per pura speculazione politica”.
Quei pochi che
avevano la sfortuna di sopravvivere e superare il tempo pattuito non erano più
in grado di tornare ad una vita normale, le loro menti erano state usurate
irreversibilmente e quasi sempre nessuno li aspettava a casa, nessuno si
ricordava più di loro. Tanti restavano a lavorare in quell’inferno, alcuni
vagavano senza meta, come zombi per le campagne dell’Agrigentino.
Voglio chiudere
questa triste pagina con una poesia, purtroppo di autore anonimo, in memoria di
questi nostri fratellini sfortunati.
Roberto Salvo
Quando gli altri ragazzi viziati
vanno a scuola senza studiare,
lui ricevendo calci e schiaffi
già lavorava dentro la solfara.
Buttato sotto terra poveretto
non ebbe dal sole la carezza
non conobbe la parola amore
e si è nutrito di pane e di amarezze.
Rimase come un brigante condannato
per tanto tempo in quella vita amara
fino a quando vecchio, stanco, già ammalato
i suoi padroni lo buttarono fuori.
Oggi seduto sullo scalino,
davanti ad una chiesa soffre ancora:
stende la mano e chiede l’elemosina!
(Autore sconosciuto)
Una pagina che dovrebbe far riflettere.
RispondiEliminaMaria
Come era possibile tutto ciò? Non c'è limite alla bestialità umana.
RispondiEliminaDomenico
Quel piccolo cimitero l'ho visto. E' qualcosa di veramente straziante.
RispondiEliminaSandro B.
Mi complimento con Roberto Salvo per quello che ha scritto. Avrei voluto non leggere mai queste cose. Ma la memoria va conservata, al pari di quella riservata all'olocausto
RispondiEliminaQuanti bambini vengono ancora oggi sfruttati nel mondo!Pensiamo ai cucitori di palloni e di scarpe da tennis in Pakistan, gli intrecciatori di tappeti indiani, i raccoglitori di canna da zucchero in Brasile. Ma questi rappresentano la punta di icerberg di un fenomeno assai diffuso che affonda le radici nella mancanza di istruzione, nella povertà, nella sopraffazione e nell' ingordigia del neocapitalismo più becero. Cerchiamo di salvarli magari non comprando quei prodotti. .Battiamoci affinchè a nessun bimbo sia negata la sua infanzia.
RispondiEliminaMaria Di Naro
Complimenti Roberto e grazie per questa bella pagina/documento. Non avevo mai sentito parlare del “prestito babbu” pur conoscendo la tragedia dei carusi nella miniera!
RispondiEliminaGiuseppina Ficarra