I ricordi sono
imprevedibili, ti affiorano alla mente all’improvviso, quando meno te l’aspetti
e rappresentano le tue personalissime emozioni, che non puoi trasferire ad
altri. Puoi raccontare, sperando che in chi legge nascano le stesse sensazioni
che le immagini del passato hanno procurato in te. Spesso sono ricordi semplici, racconti puliti che
lasciano un senso di piacere in chi li
ha vissuti.
Aspettavo con ansia la fine della scuola. Finalmente avrei potuto
recarmi in campagna e vivere ancora una volta la mia estate racalmutese. I
pomeriggi resi meno afosi dall’ora avanzata, movimentavano la voglia di fare
sempre qualcosa di nuovo. Le biciclette rappresentavano l’unico diversivo a
giornate oziose, con i libri di scuola che avrebbero sostato sul tavolo fino alla fine delle vacanze e con la promessa fatta a se stessi, di cominciare il
giorno dopo - e così sempre per ogni giorno - la lettura per non perdere il
ritmo. Credo fossi al penultimo anno di liceo. Gli amici mi divertivano, stavo
volentieri con loro ma preferivo anche i miei momenti per pensare alle cose
mie, a volte sognare. Quella è l’età che ti proietta verso cambiamenti che
accompagnano una inspiegabile malinconia. Oppure, su quella bicicletta
scassata, improvvisata, mi avventuravo per stradine sterrate. Qualche cane alla
mia vista tentava una corsa poco
convinta abbaiando, ma desisteva subito dopo.
Mi era piaciuto molto quel luogo,
dove tornavo ormai spesso; un fazzoletto di terra quadrato, delimitato da
confini nati da stoppie, dove piantato al centro stava un largo e ombroso gelso, che offriva i suoi
frutti ai passeri e che, anche io, non disdegnavo di gustarne qualcuno. Quell’odore
dolciastro misto all’aspro era forte e il cinguettio degli uccelli mi
estasiavano, tanto da fermarmi incantato per lungo tempo sotto quella chioma
maestosa che rendeva la terra fresca, non infuocata dal sole. Se alzavo il capo
verso il cielo, vedevo i raggi del sole che timidamente si insinuavano tra i
rami e si dissolvevano prima di arrivare al suolo. Era il mio luogo, il mio
albero. Affidavo a lui i miei pensieri, sfiorando il tronco come a chiedere
attenzione ai discorsi che a lui erano indirizzati e poi a cercare conferma.
Non mi aspettavo risposte, naturalmente, mi bastava la serenità che assorbivo. Quella corteccia ruvida sotto la mano mi dava una sensazione di vita e
rimandava piacevoli sensazioni. Ero tranquillo sotto le fronde del mio grande
amico. I miei pensieri, i miei sogni fatti in quel posto sembrava potessero
avverarsi tutti.
La mattina si andava a
raccogliere i gelsi. I vestiti rigorosamente scuri, la tazza tra le mani
macchiate alla fine dal rosso sanguigno
di gelsi spremuti, nella foga di strapparli a quei rami. Ne provavo una sensazione
strana, come se quel gelso fosse mio, come se altri potessero ferirlo,
offenderlo, profanarlo a dispetto mio, l’unico che aveva stabilito un contatto
col folto albero e lo rispettava e lui, in cambio, ne restituiva sapori, suoni,
odori, sensazioni. Quel gelso, quel grande albero non c’è più. Non so se
abbattuto o reso ormai secco dagli anni o da qualche malattia. Ma io lo rivedo
nella mia mente, come un conoscente, una
persona cara, come qualcuno fidato che mi aspetta sempre lì.
Racalmutese Fiero
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