martedì 5 febbraio 2013

SUTTA LU CIENZU


I ricordi sono imprevedibili, ti affiorano alla mente all’improvviso, quando meno te l’aspetti e rappresentano le tue personalissime emozioni, che non puoi trasferire ad altri. Puoi raccontare, sperando che in chi legge nascano le stesse sensazioni che le immagini del passato hanno procurato in te. Spesso  sono ricordi semplici, racconti puliti che lasciano un senso di piacere in  chi li ha vissuti. 

Aspettavo con ansia la fine della scuola. Finalmente avrei potuto recarmi in campagna e vivere ancora una volta la mia estate racalmutese. I pomeriggi resi meno afosi dall’ora avanzata, movimentavano la voglia di fare sempre qualcosa di nuovo. Le biciclette rappresentavano l’unico diversivo a giornate oziose, con i libri di scuola che avrebbero sostato sul tavolo fino alla fine delle vacanze e con la promessa fatta a se stessi, di cominciare il giorno dopo - e così sempre per ogni giorno - la lettura per non perdere il ritmo. Credo fossi al penultimo anno di liceo. Gli amici mi divertivano, stavo volentieri con loro ma preferivo anche i miei momenti per pensare alle cose mie, a volte sognare. Quella è l’età che ti proietta verso cambiamenti che accompagnano una inspiegabile malinconia. Oppure, su quella bicicletta scassata, improvvisata, mi avventuravo per stradine sterrate. Qualche cane alla mia vista tentava una corsa  poco convinta abbaiando, ma desisteva subito dopo. 

Mi era piaciuto molto quel luogo, dove tornavo ormai spesso; un fazzoletto di terra quadrato, delimitato da confini nati da stoppie, dove piantato al centro stava un  largo e ombroso gelso, che offriva i suoi frutti ai passeri e che, anche io, non disdegnavo di gustarne qualcuno. Quell’odore dolciastro misto all’aspro era forte e il cinguettio degli uccelli mi estasiavano, tanto da fermarmi incantato per lungo tempo sotto quella chioma maestosa che rendeva la terra fresca, non infuocata dal sole. Se alzavo il capo verso il cielo, vedevo i raggi del sole che timidamente si insinuavano tra i rami e si dissolvevano prima di arrivare al suolo. Era il mio luogo, il mio albero. Affidavo a lui i miei pensieri, sfiorando il tronco come a chiedere attenzione ai discorsi che a lui erano indirizzati e poi a cercare conferma. Non mi aspettavo risposte, naturalmente, mi bastava la serenità che assorbivo. Quella corteccia ruvida sotto la  mano mi dava una sensazione di vita e rimandava piacevoli sensazioni. Ero tranquillo sotto le fronde del mio grande amico. I miei pensieri, i miei sogni fatti in quel posto sembrava potessero avverarsi tutti.  

La mattina si andava a raccogliere i gelsi. I vestiti rigorosamente scuri, la tazza tra le mani macchiate alla fine  dal rosso sanguigno di gelsi spremuti, nella foga di strapparli a quei rami. Ne provavo una sensazione strana, come se quel gelso fosse mio, come se altri potessero ferirlo, offenderlo, profanarlo a dispetto mio, l’unico che aveva stabilito un contatto col folto albero e lo rispettava e lui, in cambio, ne restituiva sapori, suoni, odori, sensazioni. Quel gelso, quel grande albero non c’è più. Non so se abbattuto o reso ormai secco dagli anni o da qualche malattia. Ma io lo rivedo nella mia mente, come un conoscente,  una persona cara, come qualcuno fidato che mi aspetta sempre lì.

Racalmutese Fiero                
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