martedì 31 luglio 2012

Ragionando

Senza cuore e senza rancore

Forse ho capito perchè siamo fortemente legati al paese. E' a causa di quello in cui siamo stati trasformati. Dico questo perchè ritengo che non abbiamo con il paese un autentico rapporto affettivo, ma per certi versi siamo costretti a viverci ed a viverci in determinato modo, secondo le influenze negative ricevute da esempi sociali degenerati, siano essi dell'ambito politico o criminale, che hanno smembrato il corpo sociale rendendolo litigioso e patologicamente individualista. Se poi aggiungiamo che nell'ultimo ventennio la dialettica politica, culturale e sociale è stata annichilita o addirittura annullata, possiamo concludere dicendo che a Racalmuto per vent’ anni si è vissuto in una sorta di Babilonia priva di regole morali, civili e legali e composta da furbi, da opportunisti e da gente indignata ritiratasi a strettissima vita privata.

Oggi qualcosa si comincia a muovere. I giornali ritornano a scrivere, nei blog si anima il dialogo sociale, culturale e politico, insomma sembra che grazie all'intervento delle Istituzioni dello Stato sia stato tolto il tappo asfissiante di un vulcano rimasto inattivo per quattro lunghi lustri e nella notte si vedono sfavillare le prime luci.

Dopo questa premessa, da padre di tre figli Racalmutese faccio pubblica ammissione di responsabilità per non essere riuscito sino ad oggi a costituire un Comitato cittadino -il Ministro Cancellieri: “prendete in mano il vostro destino”- strumento civico indispensabile per poter avviare una stagione di dialogo con le istituzioni e con la società, con rappresentanti del giornalismo e culturale. E comunque sembra che qualche cosa comincia a muoversi. Io, come tanti racalmutesi onesti, ritengo di non avere il "Gene Maledetto" della diffidenza atavica verso le istituzioni, anche se ho visto troppe volte il mio paese  umiliato e tradito nelle sue aspettative dalle istituzioni o meglio dagli uomini che le istituzioni locali hanno detenuto, nessuna esclusa. Esorto i miei compaesani, di tenace concetto avrebbe detto il Grande Maestro Nanà, a raccogliere questo mio invito a costituire un comitato cittadino ed ad essere protagonisti del proprio destino e quello dei propri figli, se così non sarà molto probabilmente ritorneremo a vedere vecchi teatrini della politica ed a sentire sempre le stesse musiche anche se qualche musicante nel frattempo è stato cambiato.

Oggi Racalmuto sta vivendo un nuovo risorgimento si sentono nuove opinioni di uomini liberi anche se non c'è dialogo, stiamo ricevendo tanta attenzione dallo Stato e da Confindustria, ci sono racalmutesi che svolgono professioni di prestigio che stanno dando una grossa mano di aiuto per far ripartire il paese, la Chiesa è in fermento, insomma sembra che ci siano tutte le condizioni per un rinato ottimismo.

Perciò devo citare ancora Il Ministro Cancellieri che non ha parlato da Ministro di ferro e poliziesco come appare in televisione ma da Grande ed affettuosa Nonna ( come ha detto lei stessa nella precedente visita: pensavo di fare la nonna e non il Ministro):"Racalmuto merita tanto e forse di più".

Insomma occorre muoversi e svegliarsi onde evitare che certi errori si ripetano.

Sento da più parti voci critiche e a volte anche polemiche, alcune volte accompagnate da proposte altre volte fine a se stesse. E sino a qui nulla di male ognuno è libero di dire quello che vuole.

Ma il bello ed il brutto di un paese è che ci conosciamo tutti ed allora io ritengo che il dibattito in atto è animato da un forte attaccamento benevolo al paese, ma nello stesso tempo leggo e sento parole di astio e di vecchi rancori.

Una mia modestissima considerazione, che vuole essere anche un invito alla riflessione rivolto agli amici e concittadini di Racalmuto: chi è animato oggi da sani sentimenti e segue le ragioni del cuore, rischia di non ricordare gli errori del passato e di non vedere gli errori che sta per commettere; chi invece è animato da rancori può consumare qualche piccola rappresaglia. Ma in ambedue i casi abbiamo fatto un torto al nostro paese, smarrendo quello che deve essere l'obiettivo comune: far progredire Racalmuto che ha bisogno di futuro anzi ne ha il diritto.

Concludo con l'auspicio che ognuno di noi si scrolli di dosso vecchie abitudini alla litigiosità, vecchi rancori, si evitino saltuarie ed occasionali quanto appassionate dichiarazioni per evitare che l'eccessivo sentimentalismo si trasformi in provocazione, al fine di poter, “Ragionando” tutti insieme, ripristinare le condizioni del dialogo “senza cuore e senza rancore”.

Ignazio Scimè
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lunedì 30 luglio 2012

“LAVANDAIA” PER MODO DI DIRE


Giovani o meno giovani, poco importa, nubili o sposate, esse prelevavano la biancheria dalle case dei signori, la riponevano in grosse ceste o cufina (dall’arabo “quffa”) che portavano in perfetto equilibrio sulla testa protetta dalla spara o ciambella di stoffa, e s’avviavano al lavatoio. Sovente sorreggevano, premendola al fianco, una quartara, e porgevano la mano libera al figlioletto piagnucolante. Per consolare quel pianto, distraevano il figlioletto assonnato con indovinelli o dubbii, cunti, filastrocche e tiritere.
Giunte al Raffo, o alla Fontana, o al Saraceno, li lavanneri si disponevano in semicerchio attorno alla giebbia (vasca fatta di muratura contenente acqua, dall’arabo “ğabiya”, riserva d’acqua, in genere di pietra, per i cammelli), ciascuna nel suo spazio riservato, al Raffo non si pagava, al Saraceno invece sì perché era proprietà privata: nel periodo dell’ultimo dopoguerra, la mamma di don Rocco, raccolta nel suo scialle, esigeva le quote.
Quindi, le nostre protagoniste si apprestavano con solerzia al lavoro, senza l’ausilio dei moderni detersivi. Le più attrezzate impiegavano la scebba (dall’arabo “šabb”  “šabba”: “cenere di scorze di mandorle, utile per il bucato”), altre una locale pietra calcarea bianca, lu trubbu (forse dall’arabo “turb”: terra, polvere). Oppure, sbattendo energicamente sulla balàţa (dall’arabo “balata” lastra di roccia nuda e liscia leggermente inclinata) le lenzuola attorcigliate, come se  stessero spaccando pietre con la mazza, queste progenitrici della lavatrice ricavavano un bucato bianchissimo. Per completare la descrizione: quando l’acqua della gièbbia era troppo sporca, veniva fatta defluire completamente rimuovendo lu mazzu, una sorta di tappo costituito da un piccolo tronco che veniva collocato nella parte più bassa del muretto che recintava la gièbbia.
            Costrette a stare sul bagnato, le lavandaie alzavano le gonne per non bagnarle, lasciando intravedere le segrete nudità delle ginocchia. Le più guardinghe, o più ardite, assicuravano con gli spilloni i lembi inferiori della veste molto al di sopra del ginocchio, noncuranti di scoprire le macchie lattee delle cosce bianche “come la carta”. Costituivano, manco a dirlo, esca allettante per sguardi di aitanti picciuòtti.
            Qualche lavannera, trascelta nel gruppo, tra le meno giovani, una volta designata, veniva fatta indispettire con filastrocche allusive e maligne, scandite, sillabate dagli immancabili monellacci:

La zza Maria cu li piedi chiatti
va assicutannu li picciuttieddri schietti;
nn’assicutà unu a dicidott’anni:
uocchi cilesti e capiddri biunni.

            La rispondiera zza  Maria, una di quelle donne che, come tante, le responsabilità della vita aveva mascolinizzato, – avrebbero potuto portare i pantaloni, – che si fumava, come si soleva dire, la sigaretta, e se c’era da santiàri, santiàva fino alla blasfemia, non faceva tardare la risposta: - Eh, galiuòti, figli di mala matri! Nni la vucca v’av’a  viniri.
            Risposte risentite, lanci di pietre e inseguimenti movimentavano la routine delle lunghe giornate di lavoro. Subito dopo, la richiesta a quei monellacci vastasi di un qualche servizio (il porgere una cesta piena di pesante biancheria o badare a qualche moccioso piagnucolante figlio di questa o quella lavannera, placava la breve, intensa collera della zza Maria.
            Dopo la tempesta veniva la quiete. Si riprendeva, quindi, a lavorare tra i canti: con rafforzata lena. Era, quello spettacolo, un carosello di caleidoscopiche passioni, di caparbie sofferenze, di tenace attaccamento alla vita.

Così ogni giorno. Così per tante lavandaie. Di cui restano solo i nomi:

Maria Aquino
Anniddra la Palumma
Filumena
La Savarina
Za Vicenza la Sbirriddra detta anche la Paradisa
Liddra la Marrabbina
Alfonsa Sicurella
Zza Ntò
Maria la Gruttisa
Antonia Rinallo
Genia la Papùra
Pippina la Zzaccaneddra
Minimineddra
La Poli
Rosa Randazzo
La Ciuciù
La Cinnireddra
Zza Caluzza
Maria la Palerma
Zza Ntònia la Capitana
Mariuzza Santangelo
Angilina la Pucinara
La zz Ntonia la Narbuna
Zza Maiuzza Pagliareddra
La Conti

Riservate, sguaiate, pudiche, audaci, castigate, insolenti, dolcissime, indurite, cosa bbona, sciarrièri, laboriose, instancabili, di carattere… erano le lavandaie.
            Per tutte, ricordiamo quelle dell’ultima generazione, a testimonianza di un lavoro dimesso e meritorio. Rappresentavano l’igiene di un paese: ora ci sono le lavatrici, è vero, ma ci si imbatte in sporcizie mimetizzate che le macchine non riescono ad eliminare del tutto, ci vorrebbero i metodi antichi di sbattere e controsbattere i panni ancora intrisi su un pietrone per eliminare il nerume dell’acqua sporca.  Dio solo sa quanto utile e necessario sarebbe ancora oggi, oggi più che mai, il loro lavoro. Ne ricaverebbe salubre utilità la collettività tutta.

             Certo, adesso le lavandaie non esistono più, ma è rimasto il modo di dire essiri na lavannera, che rimanda ad un modo di essere, specialmente quando si eccede nel linguaggio;  purtroppo, troppo spesso, ascoltiamo le colorite esternazioni di qualcuno come se fosse “una lavandaia” intesa nell’accezione popolare ed estremizzando il termine. Comportamenti che da alcuni vengono tollerati e giustificati come abitudini di determinati individui, modus vivendi che ci lascia sbigottiti quando investe, nel generale aspetti della vita sociale e culturale che esprimono libertà e democrazia. Vorremmo ricordare quelle lavandaie, quelle di un tempo che andavano alle fontane e, anche se cantando, usavano vocaboli eccessivi, avevano nel cuore sentimenti puliti e mai violenti.

Di quelle ci rimane un nostalgico ricordo, delle lavandaie moderne ci resta solo il biasimo.

                                                                                              Piero Carbone
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sabato 28 luglio 2012

Caro Ignazio, il trucco c’è e non lo vogliamo vedere


E’ normale pensare che un paese venga maltrattato, abbandonato, mal governato dai suoi figli e si pretenda che persone estranee, prive di quell’amore primordiale dovuto “all’imprinting” del posto dove si è nati, possano risolvere i problemi del paese? A quando uno slancio di onestà intellettuale che ci permetta di essere obiettivi, di individuare, con serenità e severità, gli unici, i veri responsabili? Tutti coloro che tradendo la fiducia dei propri compaesani hanno amministrato la cosa pubblica con le regole del consociativismo becero e arrogante, hanno calpestato i diritti e la dignità dei cittadini. “Il paese è piccolo la gente mormora”, diceva il grande TOTO’, ma soprattutto ci si conosce tutti, sappiamo tutto di tutti, è difficile nascondersi. Prendiamo atto una volta per tutte che con la politica ci si “campa”, qualcuno si arricchisce. Togliamoci dalla testa che arriveranno dei benefattori in giacca, cravatta e l’aria intellettuale che spinti da una irrefrenabile voglia di salvare il paese dal malaffare risolvano i problemi dei cittadini. Li abbiamo già visti all’opera, perché dovrebbero cambiare? Da bambino sentivo dire ai vecchi saggi “cu và a lu mulinu pi forza savi a mfarinari”, questi al mulino ci vanno di proposito e con le idee ben chiare su quello che devono fare. I commissari nemmeno li conosco, francamente li considero degli estranei comandati ad amministrare un paese di cui non conoscono la storia e le tradizioni. Sono dei tecnici, burocrati che svolgeranno un lavoro senza passione, senza coinvolgimento, nelle fredde forme e regole previste dalla legge. Scendendo in piazza ascolto certi personaggi che hanno improvvisamente ritrovato la capacità della parola, della critica, elencano le cose che non vanno, scoprono all’improvviso le problematiche di un paese senza risorse, agonizzante, con mille problemi irrisolti; naturalmente scaricando tutte le responsabilità sui commissari. Vorrei chiedergli come mai questi problemi non li hanno riscontrati prima? Perché non hanno protestato con i loro rappresentanti eletti? Ricordano se prima che arrivassero i commissari il paese era dotato di cestini per la carta, se i cassonetti della spazzatura avevano le pedaliere funzionanti, se l’amministrazione della cosa pubblica funzionava ecc. ecc.?  Rifletto e mi rendo conto che non vale la pena dire una sola parola, mi viene in mente Federico Garcia Lorca che sosteneva che le parole sono aria e vanno al vento.

Roberto Salvo
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venerdì 27 luglio 2012

Racalmuto: Anche se è Amore non si vede.


Risulta molto complicato per i racalmutesi scrollarsi di dosso il marchio di paese di mafia , quanto quello del paese della letteratura, della ragione.
Quasi una iattura che rende complicato, addirittura impossibile, affrontare la questione  rinascita del paese con discorsi semplici.
Impraticabile non farci entrare eventi cerimoniosi, clamorosi, eclatanti, eccezionali, legati al buon nome dello scrittore “autoctono”.
Di Leonardo Sciascia in paese piace riempirsi la bocca, salvo poi staccarsi anni luce dall’effettiva attuazione del suo pensiero.
Ecco dunque riaffiorare il ricordo della violenza del potere in cui, politica, mafia , arte della parola, ipocrisia e bugia si attorcigliano con l’impotenza dei cittadini.
Ciò è accaduto a Racalmuto dove troppe volte il potere della  mafia ha fatto del male, sparando,  dove forse  qualcuno non ha fatto sempre bene  pur citando Sciascia, scrivendo.
Intanto la location è quella; difficile leggere i fatti non tenendo conto del territorio in cui si svolgono.
Se è dunque vero che la letteratura è, in definitiva, un necessario filtro interpretativo della storia del potere,  diamo per buono quanto sostenuto dal giornalista Gaetano Savatteri, ossia che: “Regalpetra esiste soltanto per chi desidera un paese diverso: un vecchio sogno, nella speranza che la forza della letteratura riesca a migliorare la realtà.”
Certamente una speranza che dura ormai da troppo tempo in questa terra “bellissima e dura”, per non smentirci, diciamo che: “tra il potere e la legge vi sono poi le vittime”
 Questo il campo di battaglia in cui è scesa per la seconda volta , dopo quasi tre mesi,   il ministro dell’interno Cancellieri , pronta a  ribadire il proprio amore per il paese di Sciascia , dopo lo scioglimento del consiglio comunale per mafia.
Dal luogo definito, da Mario Giordano ("Il Giornale", 3 agosto 2000),
“lo scatolone vuoto della Fondazione Sciascia” , ha  invitato ancora i giovani a prendere per mano il proprio futuro, firmando un protocollo per la legalità e la sicurezza, assieme ad altri componenti del governo Monti, con la promessa di un finanziamento per il paese, di un milione e duecento mila euro.
Speriamo che anche questo impegno non cada nel dimenticatoio.
Parte del finanziamento dovrebbe essere dedicato alla sicurezza e al potenziamento delle attività culturali, e dunque al rilancio del Teatro Regina Margherita.
Teatro rimasto chiuso, sino all’ultima visita del ministro, per motivi burocratici legati alla sicurezza , causa la mancanza di vie di fuga.
Con la soppressione di qualche fila di poltrone è stato riaperto, in pompa magna, alla presenza del Ministro degli interni e dei cabarettisti Ficarra e Picone,.
Una scelta che ci è sembrata in perfetta linea, una soluzione plausibile, quasi scontata, che opportunamente esaltata si vorrebbe fare passare come un segnale tangibile del ripristino delle condizioni di legalità del paese.
Ma la rinascita di Racalmuto ha ancora bisogno di sensazionalismi?
Il paese non è poi tanto nuovo a queste cose,  anche per la Fondazione Sciascia fu così: "Domenica si inaugura la sede" titolava già con evidenza Repubblica del 19 giugno 1992. Poi c’è stata l’inaugurazione del settembre ’93, la pre-inaugurazione dell’ottobre ’94, il "decollo" del dicembre ’95, e così via fino alla "consegna ufficiale" dell’ottobre ’99”.
Ritornando alle promesse,  nella stessa circostanza, solo tre mesi prima, il presidente regionale di Confindustria Antonello Montante, aveva fatto intuire l’intenzione d’inserire  anche Racalmuto nella zona franca.
La zona franca di legalità che coinvolge ventisette comuni di cui quattro in provincia di Agrigento, ventidue in provincia di Caltanissetta e uno nell'ennese, che dovrebbe dare sostegno alle imprese che si battono per la legalità e ai territori che si sono opposti al fenomeno mafioso e a ogni tipo di collusione con la criminalità organizzata: «Dalla Fondazione Sciascia, aveva promesso Montante, deve partire un modello per i territori simile a quello che è partito da Caltanissetta per le associazioni datoriali. Ringrazio il ministro Cancellieri per il suo appoggio al progetto dell'Area franca: questi territori hanno bisogno di investimenti. Potremo così dedicarci alla ricchezza del sottosuolo, del turismo e dello sfruttamento dell'energia solare»
Di questa opportunità, a distanza di soli tre mesi, nessuno ha più riparlato.
Intanto alcuni cittadini lamentano una totale chiusura al dialogo da parte della commissione Prefettizia.
In contrasto con quanto asserito e promesso dal ministro Cancellieri, la triade di commissari non starebbe mantenendo, almeno per ora, il patto di disponibilità all’ascolto dei cittadini.
Se così stanno le cose, al racalmutese non resta che non perdonare né chi usa la polvere da sparo né chi usa il collirio, per fare scendere le lacrime dagli occhi .
Ci auguriamo comunque che questo allegro ritrovarsi tra alte autorità, scrittori, show man e scrosciosi  applausi sia proficuo per tutti.
Speriamo che la piacevole e distesa atmosfera conviviale fatta di abbracci, sorrisi, incontri e conoscenze autorevoli, non sia  la solita misera occasione  utile solo ad accaparrarsi  i vantaggi, a proprio uso e consumo, dell’eredità culturale e civile dello scrittore racalmutese.
In tal caso si potrebbe parlare di speculazione culturale, e dunque la mafia finirebbe per aver fatto a qualcuno anche del “bene”.
I racalmutesi fieri confidano molto nelle cerimonie intrise d’innamoramento per il proprio paese, specialmente se a manifestare amore sono ministri e giornalisti, ma credono che alle parole debbano seguire comportamenti  e fatti concreti.
Pertanto in molti in città sperano, che tutto questo serva a qualcosa, auspicando che vi sia, da parte della triade prefettizia incaricata a governare il paese, una non esclusiva apertura a quella che potrebbe essere considerata “elit culturale”, ma sia data a tutti la possibilità di confrontarsi con chi governa la cittadina..
Se così non sarà, come direbbero gli onorati cabarettisti Ficarra e Picone,  che  hanno colorato, con le loro battute, la seconda visita a Racalmuto del  ministro Cancellieri, dichiaratamente innamorata del paese di Sciascia: “ Anche se è Amore non si vede”.


Giovanni Salvo



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giovedì 26 luglio 2012

IL PAESE DEL SILENZIO


Mi trovavo al bar della scuola, stavo prendendo un caffè con l’amico Salvatore nato ad Alessandria D’Egitto, dove ha vissuto sino all’età di nove anni. Il mio paese ha un nome di origine araba gli dico, si chiama Racalmuto, mi hanno spiegato che è l’unione di due parole, racal maut. Resto di sasso quando Salvatore pronuncia in arabo quelle due parole, qualcosa come: “ rahal maaut”, il suono delle parole era aspirato. Paese o villaggio del silenzio, proseguì Salvatore, questo è il significato delle due parole. Spiegai al mio amico che la Sicilia era stata occupata dagli Arabi e che quando raggiunsero il mio paese, probabilmente, allora era solo un villaggio; notarono un gran silenzio poiché a causa di una epidemia gran parte della popolazione era morta e gli abitanti erano pochissimi.

Da sempre trascorro gran parte delle vacanze estive a Racalmuto, paese che amo e che custodisce moltissimi ricordi della mia vita. Ogni anno ho notato che qualcosa è cambiata: l’edilizia ad esempio, si sposta sempre più oltre la periferia, praticamente nelle campagne, si creano nuovi quartieri e il paese muore un poco alla volta perché le vecchie case vengono abbandonate. Le leggi, i regolamenti rendono difficile e costose le ristrutturazioni e la gente che ha bisogno di case più confortevoli preferisce costruire nuove palazzine nell’estrema periferia. Chi ha voglia e tempo di girare per le vie e le viuzze del nostro paese potrà vedere con i propri occhi quante case disabitate e abbandonate al degrado ci siano. Sembra che un piano di recupero esista da tempo; mi chiedo, perché non ha prodotto risultati? Forse i cittadini non sanno della sua esistenza o non è funzionale, oppure è stato fatto al solo scopo di dare gli incarichi sapendo in partenza che era inutile. Quello che colpisce maggiormente è  il centro storico, il cuore del paese è come morto, pochi i negozi in attività, la maggior parte sono chiusi da anni. Molte case disabitate, alcune sono delle vere catapecchie pericolanti.  Se fosse possibile incentivare con un aumento di cubatura e l’ inglobamento di catapecchie confinanti, si attiverebbe la ripresa edilizia e il recupero di zone abbandonate. La piazza, un tempo luogo di incontro e di fermento, è poco frequentata; di sera sembra il deserto dei Tartari . Alcuni giovani vanno fuori paese altri si radunano nei bar di periferia o nelle pizzerie; le antiche e salutari passeggiate non sono più di moda.  Questo paese è molto diverso di come lo ricordavo, anche la popolazione è cambiata, è diventata un popolo di rassegnati, colpiti da una mortale apatia. Nessuno crede più in un cambiamento, specialmente in politica, molti sono convinti che la politica sia diventata solo “bisinisse” e nient’altro. L’approccio dei politicanti è: “chi c’è pi mia?”.  Fare politica è diventato come partecipare ad un concorso alle poste, chiunque è in grado di dimostrare di disporre di un pacchetto di voti, lo propone come ad un’asta al migliore offerente.  La cosa che più fa male è la perdita di fiducia nelle istituzioni; siamo convinti che i governanti siano tutti uguali a qualunque formazione politica appartengano. I metodi e i risultati sono sempre gli stessi. Sono convinto che molti lettori racalmutesi di questo blog abbiano le capacità e le conoscenze per potere scrivere sui tantissimi problemi del nostro paese, ma evidentemente sono rassegnati al silenzio. Molti si limitano a qualche  sporadico commento anonimo; forse l’innata Sicilianità impedisce loro di esporsi e manifestare  le proprie convinzioni,  pensando  che: “la migliore parola è quella che non si dice”, altri preferiscono ignorare le questioni politiche in generale e parlano d’altro. In verità i Racalmutesi in qualche occasione, con uno scatto di rivoluzionaria dignità, hanno provato il cambiamento, hanno eletto governanti provenienti da professioni estranee alla politica e  si sono accorti di essere caduti dalla padella alla brace. Oggi siamo governati da commissari, uno schiaffo alla democrazia che il “paese della ragione” non meritava. Chi governava declina ogni responsabilità su quanto accaduto e come delle verginelle dichiarano di cadere dalle nuvole, i Racalmutesi sfiduciati, pensano che più buio di mezzanotte non possa fare. Temo che molti si stiano preparando all’assalto della prossima diligenza; l’hanno già fatto e possono farlo ancora, in fondo si tratta solo di mettersi d’accordo, “a ciascuno il suo”, la politica si sa è l’arte del compromesso.  Largo ai giovani, sono loro che devono provarci con il loro entusiasmo e la loro intelligenza, sono l’ultima speranza per questo paese.  Purtroppo per i cittadini anche la speranza è diventata un lusso che non possono più permettersi, almeno sino a quando il nostro sarà: “il paese del silenzio”.

Roberto Salvo
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mercoledì 25 luglio 2012

CATARSI O METEMPSICOSI?

Leggo su Malgrado Tutto l’articolo di Felice Cavallaro che parla di Racalmuto, la visita dei Ministri Cancellieri e Ornaghi, di un paese attonito e non ancora pronto, anzi riluttante ai cambiamenti e all’intraprendenza attraverso una catartica consulta cittadina che possa dialogare con Commissari, aperti al confronto  e alle soluzioni. Poi leggo, sempre sullo stesso giornale, che forse  e dico forse, ad accendere curiosità, abbiano contribuito movimenti come lo stesso Malgrado Tutto e i siti “Regalpetra Libera” e “Castrum Racalmuto Domani” , seppur adoperandosi  tutti “ad intermittenza”. Ringrazio Felice Cavallaro per aver citato il blog Castrum Racalmuto Domani che ricordo, ha visto la luce il 20 marzo del 2012, libera espressione non asservita a movimenti politici e men che meno votata ad interessi personali e che si discosta da altre voci per scelta, differenziandosi nella forma e nei contenuti.  Mi chiedo, perché quando le cose non mi sono del tutto chiare chiedo: ma il dottor Felice Cavallaro, dove è stato tutto questo tempo? Cosa ha scritto su Racalmuto sia sul foglio locale, “suo figlio prediletto”, che sul Corriere della Sera, organo di stampa nazionale che ospita la sua prestigiosissima firma? Abbiamo gustato un suo sapiente articolo il 4 aprile del 2012, in occasione dell’insediamento dei Commissari e della visita del Ministro degli Interni. Ne assaporiamo un secondo, per il ritorno della Cancellieri e del Ministro Ornaghi. Possiamo intuire la risposta: “c’è stato tutto un lavoro dietro che ha visto un prodigarsi con gli alti vertici dello Stato”. Adesso, durante la mattinata alla Fondazione, ascoltiamo le parole di Cavallaro che parla dei “ragazzi di Malgrado Tutto” come unica espressione di impegno sociale e “spinta del nuovo”. In questo modo si annulla quanto detto, dallo stesso giornalista, in precedenza; augura la nascita di una consulta cittadina, ma nega quanto fatto da varie parti, delegittimando di fatto l’operato di Regalpetra Libera e Castrum Racalmuto Domani e facendo intendere che l’unico strumento di dialogo con Viminale e Commissari è rappresentato da Malgrado Tutto. Racalmuto non è solo estate, cene e fresco vino della Noce. Racalmuto e i problemi che vivono gli abitanti sono tutto l’anno. Racalmuto non è esclusivamente la visita di determinate rappresentanze istituzionali. Racalmuto  c’è anche quando si spengono i riflettori. Chi scrive, insieme a Roberto Salvo risiede in Lombardia. Piero Carbone, che risiede a Palermo.  Unici “stanziali” Ignazio Scimè  e Johnny Salvo che raccolgono gli umori della piazza e, con spiccato senso critico e costruttivo, esprimono le loro idee. Tutti animati da un unico esclusivo obiettivo: IL BENE DI RACALMUTO, nessuna voglia di rivestire cariche rappresentative o istituzionali.  E non mi risulta che nulla sia stato tentato per intraprendere un dialogo con chi amministra il paese in questo particolare e delicatissimo momento;  alcuni esponenti di partito e nello specifico Carmelo Mulè,  hanno inviato ai Commissari le loro proposte che riguardavano, anche,  l’inserimento di Racalmuto nella zona franca. Nessuna risposta è mai arrivata. Da questo blog, più volte, sono partite esortazioni, proposte, semplici suggerimenti o critiche, sempre in maniera intelligente, civile e propositiva. Più volte ci siamo rivolti ai Commissari proponendo quello che, nel protocollo per Racalmuto, adesso leggiamo. Non  ci risulta che ci sia stata indolenza nel costituire una consulta cittadina.  Siamo felici che sul paese pioveranno  €  1.200.000,00 ma credo sia importante sapere da chi e come verranno gestiti. Penso che Racalmuto abbia l’urgenza di risolvere i problemi del quotidiano: occupazione, commercio e semplici adempimenti.  Vanno benissimo i proclami sul Teatro, la Fondazione, preoccupandosi magari, di  chi andrà a gestire le strutture che, senza possedere poteri di “diminaglia”, già da tempi remoti avremmo azzeccato i nomi. Siamo consapevoli, che il Regina Margherita e la Fondazione Leonardo Sciascia, investono un importantissimo comparto del turismo, dello spettacolo e della cultura.  Ma tutto questo deve trasformarsi in “PANE PER IL POPOLO”. Solo così potrà essere evitato il reiterarsi di alcune aggregazioni malavitose.  Altrimenti, dottor Cavallaro, tra quindici mesi, assisteremo non ad una catarsi ma a una metempsicosi.

Salvatore Alfano – Racalmutese Fiero
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martedì 24 luglio 2012

NÉ CINICI NÉ SPIRTUNA


Da quando Sellerio ha pubblicato Kermesse, Museo d’ombre e L’incominciamento, rispettivamente di Sciascia, Bufalino e Bonaviri, i modi di dire in dialetto siciliano commentati sono diventati uno sfruttato filone editoriale e direi una moda o la scelta formula per esprimere impegnativamente “voce e pensiero dei siciliani nel tempo”, per  descrivere e caratterizzare una città attraverso i suoi “proverbi, modi di dire e di fare, tiritere, nonsensi”. In questa gran messe di pubblicazioni se ne trovano due molto curiosi; un terzo modo di dire, invece, è tratto dalla nostra tradizione. 
*
‘U spertu arriva a’ tavula cunzata
L’approfittatore giunge quando tutto è pronto a tavola.
Spertu significa esperto ma nella maggioranza dei casi viene ironizzato perché si tratta di classificare persona adusa notoriamente a alzate d’ingegno abbastanza scoperte. Per gratificare di pronta intelligenza e intraprendenza, il siciliano sposta d’un grado maggiorativo il termine, dice spirtuni e stavolta, quasi sempre senza ironie come non c’è ironia nel dire sautafossi (saltafossi) per tornare sul concetto di prima, sulla intelligenza, su certa scaltrezza che siamo soliti definire levantina nel settore mercantile dei saltimbanchi. Ecco l’esempio di un sautafossi, che con dialettiche, abilità e inventiva, contratta fino a strappare all’interlocutore un prezzo convenientissimo, ‘u spertu che, piovuto dal cielo, fiuta l’affare e se lo porta via con faccia di piombo.                                
Mario Grasso, Lingua delle madri. Voce e pensiero dei siciliani nel tempo, Prova d’Autore, Catania 1994, pag. 49.
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Sanzichitè, ca morsi ‘a nanna!
            Assai misterioso modo di dire, dall’interpretazione rischiosa che potrebbe portare a strane illazioni. E cioè: “Chi era” o “Cos’era” questo sanzichitè? Un ragazzo? Un avverbio? Ma perché un avverbio dovrebbe gioire per la morte della nonna?
            Tutto diventa chiaro se si tiene conto dello zampino francese.”Sans se quitter” (non muoversi; fermi tutti) che la morte della nonna manda all’aria i nostri piani.
Enna per modi di dire. Proverbi. Modi di dire e di fare. Tiritere. Nonsensi. E altro ancora, a cura di Umberto Domina, Il Papiro Editrice, Enna, senza data, pagg. 101-2.
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Sulla scelta del terzo modo dire vanno dette alcune cose in premessa.
Una volta mi è stato chiesto di commentare un detto racalmutese venuto fuori durante un incontro organizzato sul tema “Solidarietà e saper vivere in comunità”. La richiesta è stata così motivata: “Abbiamo quindi voluto saperne un tantino di più e siamo ricorsi alla lietissima collaborazione dello scrittore racalmutese etc. etc.”.  A chiedermelo sono stati alcuni ragazzi che avevano dato vita ad un “foglio” locale,  uno di quei giornali a “numero unico” o quasi nato sull’onda dell’entusiasmo giovanile quando nella fisiologica esigenza e voglia di affermarsi si vuol mettere sottosopra il mondo e contestarlo e rivoluzionarlo, per appropriarsene in qualche modo, in fondo. Il combattivo manipolo che ricordo in ordine sparso era costituito  da Salvatore ed Enza Pinò, Salvatore Picone, Florinda Collura, Annarita Formoso, Giovanna Macaluso, Giusi Ruggeri e Luigi Falletti che, prima di sbaraccare, eroicamente ha cercato di arginare la diaspora dei redattori, di alcuni volontaria di altri costretta. Discreto nume tutelare, Sergio Scimè. A distanza di sedici anni, l’ormai laureata Florinda Collura fornisce la seguente testimonianza:  “È stata un'esperienza bellissima, anche travolgente, visto che non avevo mai fatto parte di una redazione giornalistica. Mi è servita tanto questa esperienza sia perché si viene a contatto con le persone, si discute, si dibatte... e sia perché secondo il mio parere nella vita è importante esporre le proprie idee, i propri pensieri, ascoltare quelli altrui e sapersi confrontare l'uno con altro...!!”
Puntuali come  ogni migrar di rondini, questi giornali o “fogli cittadini” di commento e cultura, compaiono all’affacciarsi di ogni generazione: diventano una bandiera, un partito sui generis, il luogo di ritrovo di un gruppo di amici, la pista di lancio verso le destinazioni più impensate. E ogni volta si assiste al pressoché identico spettacolo di reazioni degli adulti o della concorrenza: sorpresa, sottovalutazione,  sgomento, opposizione sotterranea, guerra dichiarata dietro formule beneaugurali di circostanza fino al tentativo di neutralizzare l’intruso.
Mi è accaduto diverse volte di partecipare al battesimo di queste “creature” e ogni volta, convinto della loro validità sociale e formativa,   l’ho fatto con piacere, contribuendo con articoli, consigli e qualche volta rivedendo le bozze in tipografia; chi è immune da sviste e refusi? Esaurita la “spinta propulsiva”,  alcuni di questi “abusivi” della professione giornalistica si disperdono lungo le strade della vita lavorativa con percorsi lontani da  quell’esperienza di militanza pubblicistica. Altri, nell’euforia di trasformare in lavoro stabile l’acerba effusione o eruzione giornalistica, svendono quel sogno di intraprendenza giovanile per inseguire chimere simili più allettanti. In conclusione, si può dire che solitamente questi fogli garibaldini esprimono la voce dei giovani, a cui, malinconicamente segue, quando resistono all’usura del tempo, e persistono, un silenzio da vecchi: un silenzio particolare, costituito stranamente da molte parole afone.
 Del resto, raramente i giornali “giovanili” sfuggono all’inesorabile legge secondo la quale appena diventano giornali di adulti, da adulti, e si stabilizzano, uccidono il sogno giovanile di libertà espressiva perché non fanno più “opposizione” e incominciano a “calcolare” quello che debbono o non debbono pubblicare indulgendo a reticenze e mistificazioni, trasformando le notizie e gli spazi cartacei e non cartacei in merce di scambio, in regali per gli amici e in pietrate per i nemici: oscillando tra prudentissimi silenzi e calcolati strepiti.
Importante, comunque, è non invecchiare  moralmente sotto i colpi e contraccolpi delle vicissitudini della vita reale, non incarognirsi nella dimensione sociale, fino a diventare cinici, come nel modo di dire che quei ragazzi mi hanno chiesto di commentare su “La voce dei giovani”, numero unico, luglio 1996:
La spina n capu di l’antri è moddra comu la sita
Il cinico detto racalmutese La spina n capu di l’antri è moddra comu la sita  non viene  riportato da Michele Castagnola nel suo Dizionario fraseologico siciliano-italiano né dal Mortillaro né dal Traina: riportano, costoro, altri pungenti esempi ma non quello racalmutese. Due sono i motivi: o lo ignorano perché poco comune o lo ritengono antisociale.
            Spina, infatti, equivale nel detto a: pena, dolore acuto, difficoltà, angustia, cruccio, cosa che reca dolore. Ebbene, il detto racalmutese è di una disperante violenza antievangelica. Altro che piangere con chi piange (e gioire con chi gioisce)!
            Tutto il contrario: soffrire per chi gioisce e gioere per chi soffre. E peggio ancora: si nega alla spina di essere spina. Non c’è indifferenza, ma sarcasmo, trista ironia: le spine, e quindi le sofferenze, addosso agli altri non vengono ritenute acute e dolorose come quelle dei pruni e delle rose o come le scheggine di legno che si conficcano sotto la pelle o sotto le unghia. Macché! Molli, seriche addirittura. E cosa c’è più carezzevole della seta che struscia sulla pelle con la leggerezza di un battito di farfalla?!
            Se così fosse nessuno vorrebbe togliersi le proprie spine, invalidando l’altro detto, racalmutese o no poco importa: Cu avi la spina si la leva.  Troverebbero in tal caso giustificazione tutte le cattive coscienze di questo mondo.
****
I proverbi e i modi di dire sono senza tempo e perciò applicabili in tutti i tempi; tuttavia speriamo e scongiuriamo che, fuor di metafora, cinici e spirtuna non siano riferibili all’ambito sociale in cui viviamo e a cui siamo radicatamente legati perché il nostro natìo loco, in questo particolarissimo momento storico, per una riqualificata ripartenza, ha bisogno di tutt’altri  modelli antropologici.

                                                                                                                      Piero Carbone
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lunedì 23 luglio 2012

Il Trucco c'è e si vede


E' normale che quando si aspettano ospiti si pulisce tutta la casa. Non è normale (fuori norma) nascondere la polvere sotto il tappeto, chiudere le altre stanze nel disordine e sperare che gli ospiti vadano via subito e che si limitino a visitare solo il salotto senza alzare il tappeto. Tutto questo "trucco" può funzionare solo ed ovviamente se non si sentono cattivi odori.
A Racalmuto ci stiamo abituando, a forza di ricevere ospiti autorevoli, a vedere frettolosi e maldestri tentativi di dare una parvenza di pulizia e ordine in occasione di visite Eccellenti. L’altro ieri ho visto i manutentori che coprivano i tombini con il gesso, poco tempo prima li avevano sigillati con i sacchi neri della monnezza, tutto questo per evitare che uscisse la puzza. Forse prima non ci sono riusciti con i sacchi neri di plastica che sotto il sole cocente si sono liquefatti, ora ci hanno riprovato ricoprendoli  con il gesso in superficie. Una volta i tombini di tutto il paese, compreso il corso dove passeggia il Popolo e non solo i tragitti percorsi dalle autorità, erano chiusi per il periodo estivo con una tecnica diversa da quella attuale, ovvero, si alzavano le grate e sotto, sorretto da due tavole, si metteva un pezzo di cartone e sopra di esso una gettata di gesso liquido; così facendo non si vedeva nulla dall'esterno e alle prime piogge il gesso si scioglieva e portava via tutto. Oggi invece abbiamo assistito allo sconcio inutile dei sacchi della monnezza usati come copri tombino e successivamente all'ingessatura esterna, e mentre gli operatori finivano di ingessare un tombino e freneticamente ne iniziavano un altro, un pedone o una macchina passava sul tombino già ingessato in superficie e lo spaccava. Infatti il manto nero della piazza si è colorato di gesso bianco a chiazze di leopardo. Niente male, d’altronde quest'anno il leopardato siberiano bianco-nero fa trendy. E comunque dal frenetico lavoro che si vede in giro ho capito che stanno per arrivare autorità, sperando che non facciano il giro del paese e non entrino dentro il municipio, perché  proprio nel soffitto delle scale, dove si trovano i mezzi busti raffiguranti due padri della Repubblica Italiana, Garibaldi e Mazzini, vi è da tempo un ampio squarcio. Tranne che anche quello squarcio non abbia la sua valenza storica considerato che somiglia molto alla Breccia di Porta Pia.
Sempre oggi ho dovuto accompagnare in giro per il paese alcuni amici francesi, appassionati estimatori di Leonardo Sciascia. La loro meraviglia e la gioia che hanno provato nel visitare la Regalpetra di Sciascia si toccava con le mani.  Poi uno di loro,  mentre sostava ad ammirare la Statua dello scrittore, notando che questi tiene tra le dita una sigaretta, tira fuori il suo pacchetto di sigarette e ne accende una come a voler idealmente fumarla insieme al Maestro. Che mai l'avesse fatto, perché  quella era l'ultima sigaretta del pacchetto di Francoise-Marie e rivolgendosi a me in perfetto francese mi chiede: Ignazio dove sono i cassonetti per buttare le carte? Ho fatto un giro con lo sguardo a trecentosessanta gradi e non ne ho visto nemmeno uno. Francoise infastidito insisteva :- Dites-moi où est-. Rispondo: -senti Francoise  calmati, vedi che qua siamo a Racalmuto e smettila con sta Regalpetra,  Regalpetra è un posto immaginario mentre Racalmuto è un paese vero e perciò i cestini in piazza per le cartacce non ce ne sono. Ma nello stesso tempo non gli potevo dire buttalo per terra, come sarebbe stato logico,  ed allora gli ho suggerito di dare al sottoscritto questo pacchetto vuoto che poi lo avrebbe buttato. Me lo misi in tasca.  Alla fine quando ci siamo salutati con gli amici francesi me ne sono tornato a casa con le tasche gonfie… di cartacce ovviamente. Prima di arrivare a casa mi sono fermato vicino ad un cassonetto della spazzatura per svuotare le tasche e, come sempre e come tutti i cassonettti dislocati in giro per il paese sono malconci,maleodoranti forse perché non vengono mai lavati e principalmente con il pedale per l'apertura rotto. Allora sei costretto, per aprire il cassonetto, ad alzare il portellone con le mani, quanto di più igienico possa esistere. Ma chi li rompe sti cassonetti? Forse nessuno, sono solo obsoleti e nessuno provvede a farli sostituire e dire che il sindaco Protempore è la massima autorità in materia di igiene pubblica.  Pensavo che la politica della finzione fosse finita il 10 aprile 2012 ed invece constato che il principio dell'apparire più che dell'essere ha contagiato pure le istituzioni. La forma ha la sua importanza ma senza sostanza è solo finzione che, forse, è più comoda della reale soluzione dei problemi. Forse se si leggesse qualche documento in meno e ci si risparmiasse qualche proclama delle porte aperte e ci si facesse qualche passeggiata a piedi per il paese per conoscere i problemi tutto sarebbe più semplice e comprensibile agli occhi del popolo. Torno a casa così mi rilasso un po’ con le notizie dei Blog e leggo una dichiarazione fatta da uno dei commissari che dice: "La mafia non scompare magari aspetta che noi ce ne andiamo, la mafia lo sa che prima o poi andremo via". Ma il commissario lo sa che questo paese è stato martoriato da una lunga guerra di mafia e che la mafia ha "contagiato" e che oggi il popolo racalmutese, fatto per la stragrande maggioranza di gente onesta laboriosa intelligente e di sani principi morali, vuole riscattare il paese con grande dignità ed a testa alta? Pertanto ritengo che il Commissario, quale funzionario del Ministero degli Interni, abbia validi elementi di prova o comunque fondati sospetti che lo hanno portato a fare tale affermazione e che abbia relazionato alle autorità giudiziarie competenti al fine di indagare, prevenire e reprimere ogni tentativo di riorganizzazione delle cosche mafiose. Se così è stato,  presso la DDA di Palermo sarà stato già iscritto nel registro degli indagati un procedimento  penale contro ignoti per il reato previsto e punito ex art. 416 bis c.p.
E' il caso di  tornarsene in campagna a sentire l'odore della citronella e del basilico, ad accarezzare i mie due volpini italiani che mi scodinzolano solo per affetto, ad aspettare che arrivi Regalpetra, perché,  per ora, stare in paese ci guadagni solo le tasche gonfie… di cartacce e cassonetti rotti e puzzolenti.

Ignazio Scimè
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domenica 22 luglio 2012

GALEOTTO FU QUEL PINO

Torno per pochissimi giorni a Racalmuto. Il tempo di sbrigare un po' di faccende ma non puo' mancare l'incontro con gli amici. La cerchia si infoltisce. Veniamo invitati sotto il pino allo Zaccanello per un aperitivo: pomodorini, acculazzati e fette di pane casereccio con marmellate della signora Maria, niente di più buono.  L'atmosfera è piacevolmente familiare. Si discute del più e del meno, ma l'argomento principale resta sempre Racalmuto e il futuro che l'Amministrazione comunale e tutti gli uomini di buona volontà vorranno riservargli.  Sarà l'aria dello Zaccanello, saranno gli effluvi del pino ma assistiamo alla metamorfosi  di  un uomo mite che si trasforma in "rivoluzionario";  non riusciamo più a frenare gli accesi entusiasmi di Piero.  A rincarare la dose, ci si mette anche Roberto che....lancia il sasso e nasconde la mano. Giovanni (per ora lo chiamo così), riflessivo e sorridente, è l'ultimo arrivato, concentrato a capire chi sono questi individui a volte un po' strani. Carmelo, con la sua aria sorniona, esprime in maniera lapidaria  i suoi pareri ora su un personaggio, ora su un fatto. Ignazio, con sottile ironia, riesce a carpire i più profondi pensieri di tutti i presenti. Siamo semplicemente degli amici che hanno a cuore il proprio paese, Racalmuto!

Racalmutese Fiero
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sabato 21 luglio 2012

CONSIGLI PER IL TUO BAMBINO - Pesce? Sì, grazie

Quando, circa 20 anni fa, mi trasferii in una ridente cittadina (si dice così…) sul mare, con un bambino appena nato, decisi che le abitudini alimentari della nostra famiglia sarebbero cambiate: la possibilità di trovare pesce fresco tutti i giorni mi induceva istintivamente ad utilizzare questo alimento con molta più regolarità. Ma non è stato facile! Il pesce, rispetto ad esempio alla carne, alimento suo consimile, costa di più, ha una resa minore, richiede tempo per la preparazione, tende ad andare a male più facilmente, ha un sapore ed un odore più pungenti che vanno apprezzati fin da piccoli perché diventino parte integrante della nostra dieta. Eppure il mio sforzo, peraltro riuscito, aveva uno scopo preciso e cioè far si che le preferenze alimentari dei miei figli fossero indirizzate verso questo prezioso alimento, dato che esse non sono innate, ma frutto dell’esperienza quotidiana. Scelta giusta! Oggi il mondo scientifico è concorde nel consigliare l’utilizzo del pesce nella dieta dei bambini fin dal primo anno di vita, e fino a 4 volte a settimana o, comunque, più della carne. Il pesce contiene in media 15-20 gr di proteine ogni 100 gr (eliminata la pelle e le spine), i grassi dallo 0,3 (come il merluzzo) all’8-10% (come il salmone o l’anguilla) e pochi carboidrati, il resto è rappresentato da acqua, vitamine e minerali. Ma è la qualità dei suoi componenti a fare la differenza e rendere il pesce un alimento davvero speciale:

PROTEINE: è una fonte completa, rappresentata da tutti gli aminoacidi, ed in particolare da quelli essenziali, cioè che l’organismo non è in grado di produrre da sé: abbondanti la lisina, la metionina e la treonina. La scarsa quantità di collagene presente rende le proteine del pesce più facilmente digeribili.

GRASSI: si tratta in particolare di acidi grassi polinsaturi del gruppo omega3, in particolare acido linolenico, l’acido eicosapentaenoico e l’acido docosaesaenoico, che i pesci sintetizzano dal loro alimento principale che è il plancton. I grassi polinsaturi sono essenziali per lo sviluppo del cervello e della retina, riducono i processi infiammatori a livello delle arterie ed esercitano un controllo positivo sui lipidi circolanti.

SALI MINERALI: il pesce contiene basse quantità di sodio e medio-alte di fosforo, calcio, magnesio, selenio, zinco, ferro, rame e soprattutto iodio. Tutti minerali che, a vario modo, entrano a far parte delle reazioni fondamentali dell’organismo.

VITAMINE: in particolare la A , la D e la E ed alcune del gruppo B.

Il pesce è in pratica un alimento che soddisfa in pieno gli obiettivi nutrizionali dei primi anni di vita e cioè fornire nutrienti adeguati per accrescimento, immunità e sviluppo neuronale. Inoltre la buona abitudine al suo consumo, se si consolida negli anni, aiuta a prevenire le malattie cardiovascolari dell’età adulta. Di sapore delicato sono sogliola, merluzzo, platessa e nasello, ma più ricchi di vitamine e grassi “buoni” sono il pesce azzurro (sardine, acciughe, sgombri) ed il salmone. Se le preparazioni più semplici, come al cartoccio, a vapore o lessato sono gradite dai bambini più piccoli, si può pensare di utilizzare preparazioni che assecondino di più il gusto diverso dei ragazzi più grandicelli come l’impanatura con cottura al forno, l’aggiunta di spezie e pomodorini o il piatto unico insieme alla pasta. Per venire incontro alle difficoltà di chi lavora, il pesce surgelato rappresenta una valida alternativa al prodotto fresco. Infatti la surgelazione, grazie alla rapidità con cui vengono portati gli alimenti a -18°C, preserva l’integrità delle membrane cellulari in modo che i liquidi e i micronutrienti in essi disciolti non si perdano nella successiva preparazione domestica che deve però seguire, in modo preciso, le indicazioni riportate sulla confezione. Mi sembra chiaro che, nell’ottica di un consumo consapevole, è indispensabile che il pesce e gli altri buoni prodotti del mare, acquistino sempre più quotidianamente un posto sulle nostre tavole.

Dott.ssa Marina Cammisa
Pediatra
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venerdì 20 luglio 2012

Digito….ergo sum

"….caz...non ti posso dare il  4% perché la ditta mi dà il 5%...e che ti tengo la  candela?” “ Hai dato il latte al bambino, con poco zucchero mi raccomando..”
“…non mi rompere i co…io non ci vengo”  Questi sono i discorsi pronunciati. al telefonino dai clienti  di una banca mentre attendono il loro turno. Vado a sedermi un po’ distante e tento di concentrarmi nella lettura del libro che ho con me. Pochi minuti dopo, un giovanotto occupa il posto vicino a me e incomincia a giocare con il suo cellulare. Il tono dei tasti è alto e rumoroso. Non si accorge che sta dando fastidio e che lo guardiamo con riprovazione!Non sono contraria ai cellulari che, anzi, spesso sono utilissimi ma allo spasmodico loro utilizzo, specialmente da parte dei giovanissimi. Li avete mai osservati mentre stanno assieme magari in pizzeria? Non parlano tra di loro, sono sempre connessi con altri. Sembra che la loro esistenza sia legata alla digitazione e che il pensiero sia sempre  altrove….Zero interesse per ciò che succede intorno, sotto gli occhi . La nonna sperava di potere chiacchierare con i nipoti, dopo aver faticato tutto il giorno tra i fornelli per preparare la succulenta cena. Ora, delusa, li osserva mentre si appartano, subito dopo aver consumato il pasto, per navigare e comunicare in fb. Non si arrende, li rimprovera ma ottiene mugugni e solo frammenti di presenza. In chiesa, in piena omelia,uno squillo di cellulare fa uscire fuori un vecchietto che non riesce a spegnerlo, mentre molte ragazzine continuano a mandare e ricevere sms! Ma quale ascolto, dove sono, perché sono lì? Anche il giovane organista tra una sonatina e un’altra non resiste dal dare una sbirciatina al suo iphone! Il guardarsi negli occhi, l’osservare la postura mentre aleggia un’emozione, l’offrire all’altro un sorriso d’incoraggiamento, il notare il piacere dell’incontro e del racconto, il silenzio carico di girandole di pensieri, sembrano essere  elementi  di una metodologia  della conoscenza d’altri tempi. I cellulari non hanno migliorato granché la natura delle comunicazioni tra gli esseri umani e la qualità dei rapporti interpersonali. Non tralasciamo, inoltre, il danno alla salute che l’uso smodato dei telefonini può provocare soprattutto ai soggetti giovani. E’ accertata dalla ricerca scientifica la possibilità di contrarre un cancro al cervello dopo dieci anni di utilizzo, prolungato per circa trenta minuti al giorno. Quest’anno vanno di moda le spiagge “wi-free”ovvero senza campi magnetici e copertura di rete. Ma le chiese non sono, da sempre, luoghi in cui la sola connessione consentita  sia quella  con Dio?

Maria Di Naro
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giovedì 19 luglio 2012

In nome del POPOLO SOVRANO




Ieri ho ricevuto la telefonata del mio amico Ignazio;  ogni tanto amiamo confrontarci su  ampi scenari e complicate problematiche. Non tanto per dipanarne il groviglio, quanto per capire. Naturalmente la nostra discussione, come ormai spesso accade, verteva su Racalmuto e su fatti chiari o ancora sapientemente occultati. Si parlava di future prospettive e si concordava che oltre l’umana ambizione e la voglia di emergere per ricavarne benefici personali, occorre attualmente, a Racalmuto, l’iniziativa congiunta che operi per il bene collettivo e non per quello singolo. La gestione di determinati spazi o punti strategici, non deve abbagliare e  far perdere di vista l’obiettivo comune e cioè il rilancio di tutti gli strati sociali del paese e non solo di alcuni a scapito di altri. Noi siamo convinti che la Commissione Prefettizia, che amministra ormai  Racalmuto da qualche mese, operi in irreprensibile autonomia, libera da ogni condizionamento, suggerimento o consiglio alcuno. Siamo certi di questo, vogliamo esserlo! E poi, diciamoci la verità: nessuno, residente e non, è detentore del Verbo, dell’univoca verità. Nessuno , tra i residenti e non, possiede la panacea per tutti i mali, capace di risolvere i problemi collettivi di un paese che versa nell’abbandono, nell’incuria e nella crisi politica, sociale, ed economica . Sarebbe un grave errore, in questo momento, avere mire personali. Significherebbe non avere a cuore il paese.  Tutto, le nostre proposte, le nostre aspirazioni, dovrebbero passare attraverso un organo imprescindibile, incorruttibile: il POPOLO SOVRANO. Senza questo “avallo”,  operando per vie sotterranee, rincorrendo ambizioni personali  privi di  credenziali fondamentali,  concesse da un ampio  volere popolare, non avremo mai la necessaria condivisione. E tutto quello che forzatamente metteremo in atto, rappresenterebbe un ennesimo, irreparabile danno per Racalmuto.  Per questo, come dicevamo, siamo convinti che i Commissari lavorino con la giusta serenità e non subiscano influenze che sarebbero, ove ipoteticamente vi fossero, deleterie per tutta la comunità.

Racalmutese Fiero 
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mercoledì 18 luglio 2012

IL GIOCO DEGLI SCACCHI


Il gioco degli scacchi è complesso perché si discosta dai normali giochi e si avvicina a tecniche altamente strategiche e scientifiche. Il procedimento implica l’individuazione di una mossa precisa, fatta di ipotesi esclusivamente mentali, per arrivare ad un’unica soluzione che rappresenta il palesare la decisione. Nel giocatore di scacchi la tensione è notevole, provocata da incertezza febbrile e intensa concentrazione. Uno stato di tensione permanente, insomma, che rende il giocatore nervoso. Nel gioco degli scacchi predominano intelligenza, visualizzazione, immaginazione. Il giocatore intellettualizza la propria aggressività che gli farà trovare numerosi sbocchi che rappresenteranno le mosse giuste. Volendo adattare gli scacchi alla realtà, alla vita quotidiana, sociale, politica, non sempre le mosse che si scelgono rappresentano le giuste soluzioni per arrivare alla vittoria e battere l’ipotetico avversario. Sì perché, talvolta, parliamo di ipotetiche sfide e ipotetici avversari. La fretta, il nervosismo, l’ansia, la tensione, possono portarci spesso a fare delle mosse sbagliate , vanificando un’intera partita. Chi gioca a scacchi è leale, accetta la sfida e mette in conto la sconfitta. Non bara, non mente, non illude e non gioca sporco. Lo scopo è solo quello: portare a casa una vittoria che rappresenta la soddisfazione di aver prevalso sull’avversario, con la propria intelligenza, con le proprie capacità. Il giocatore gioca sullo stesso campo dell’avversario: una scacchiera e non può, non deve, per prevalere, distruggere il campo di gioco, ma deve confrontarsi confidando esclusivamente sulle proprie capacità. A Racalmuto sembra siano iniziati i tornei di scacchi. Non tutti sono bravi giocatori. Alcuni mirano solamente a eliminare i pedoni dell’avversario, altri si muovono con discreta strategia. Altri ancora ostentano una abilità, poco credibile, nel gioco, pensando che bluffare rappresenti la giusta strategia. Alla lunga, un pessimo giocatore di scacchi, lo si riconosce sempre. Un consiglio: evitate di giocare più volte la stessa partita. Evitate di giocare con lo stesso avversario. Evitate di sporcare nuovamente la scacchiera.

Racalmutese Fiero
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martedì 17 luglio 2012

DIMINÀGLIA, DIMINÀGLIA


     Quando eravamo piccoli, in campagna, d’estate, davamo la caccia alla “Diminàglia”. Presala, la deponevamo nel cavo della mano, e, stuzzicandola con l’indice, le domandavamo dove si trovasse il Nord.
      Il povero insetto si dimenava per liberarsi, ma noi, improvvisati sciamani, imperterriti e fiduciosi, continuavamo a porre le nostre domande: dove facesse l’uovo la gallina, chi fosse il più sciocco del paese, se dovesse piovere all’indomani.
      A mezzo tra gli àuguri latini, che divinavano il futuro interpretando il volo degli uccelli, e gli arùspici greci, che il futuro leggevano nelle viscere degli animali squartati, noi, da esperti seviziatori, sapevamo indovinare la risposta interpretando i disperati “gesti” della Diminàglia.
     La Diminàglia o Mantide religiosa, un comunissimo insetto dal collo di giraffa, con due piccoli occhietti fissi in una testina triangolare, mobilissima, era la Sibilla che, dimenandosi, dava risposta a tutto, ai nostri dubbi di ragazzi.
     Ora non ci credo più alla Diminaglia, interpellata dai ragazzi di altri paesi come Nniminàglia o Miniminàglia: ben altre domande avrei da rivolgerle ed essa non risponderebbe. Ma come si fa a sopprimere il bisogno di fare domande?
      Come si fa a non immaginare domande sulla vita, sulla morte, sull’odio, sulla violenza, sull’ingiustizia, sul cielo, sulla terra, sulla nostra terra? E, planando dalle generalissime questioni,  con il passare del tempo, quasi quasi si vorrebbe chiedere alla Diminaglia di dipanare i grovigli delle coscienze e degli interessi che ci stanno dietro inconfessate mire, ipocriti comportamenti, responsabilità inderogabili. Nella speranza che gli scatti nervosi della Mantide, senza farsi deviare dai lustrini del potere e del successo, senza mettere in conto calcolati silenzi per tornaconti futuri, saltando l’ostacolo di decoratissimi e impenetrabili paraventi,  individuino il marcio e aiutino a togliere di mezzo erbacce e cianfrusaglie metaforiche; nella speranza forse esagerata che i “religiosi” gesti dell’elegante insetto rendano possibile la prosecuzione di un cammino virtuoso che conduca in un paese migliore dove, anche se non scorrerà latte e miele, si potrà cogliere un solidale senso del vivere di persone sincere. 
      La Diminaglia non sa, non ha risposte da dare; ma io non so rinunciare ai miei dubbi, anche se potrei costringermi a non fare domande.
      La poesia è la Diminaglia che cerco e a cui chiedo com’era in Sicilia il passato, come sarà il futuro, perché i mali del presente.
      L’evocata immagine della Diminaglia sarà bella forse, ma è la poesia che viene il dubbio sia inattuale. Mientras haya esperanzas y recuerdos, habrá poesía! dice un poeta spagnolo. “Finché vi saranno ricordi e speranze, vi sarà poesia!”. E chi potrà sradicare dal cuore dell’uomo le speranze e i ricordi? Esperanzas y recuerdos.
       Ci ripenso, invoco la Diminaglia, e chiedo:

-         Diminaglia, Diminaglia,  cu ci fita nni la paglia?
-         La gaddriiina!
-         Diminaglia, Diminaglia, nni la staddra cu cci rraglia?
-         Lu sceeeccu!
-         Diminaglia, Diminaglia, cu è ca ntrezza e ma’ ca sbaglia?
-         Li baaabbi!
-         Diminaglia, Diminaglia, cu si cogli li stuppaglia?
-         Li picciliiiddri!
-         Diminaglia, Diminaglia, u maritu a cu si piglia?
-         A la muglieri!
-         Diminaglia, Diminaglia, ccà s’arridi o si sbadaglia?
-         Boooh!

Brava fusti, Diminaglia,
nun sgarrasti mai na vota:
si cchjù saggia di ma nannu,
e giacchì m’arrispunnisti
senza dubbi e senza sbagli,
pi stasira mi vastà,
iu ti pozzu libbirari.
Si quarcunu già t’aspetta,
nun lu fari cchjù aspittari.
Via! Vatinni ppi lu munnu.
E portami na bona nova!

Mantide, Mantide, / chi fa l’uovo nella paglia? / La gallina! // Mantide, Mantide, nella stalla chi è che raglia? / L’asino. // Mantide, Mantide, chi è che sempre ci azzecca  e mai sbaglia? // Gli scemi! //  Mantide, Mantide, chi racimola i tappi (nelle feste)? // I bambini! //Mantide, Mantide, il marito con chi si sposa? / Con la moglie! // Mantide, Mantide, qui si ride o si sbadiglia? / Boooh! // Brava sei stata, Mantide religiosa, / non hai sbagliato neanche una volta: / sei più saggia di mio nonno, / e giacché hai risposto / senza dubbi e senza errori, / per questa sera sono soddisfatto, / ti posso liberare. / Se qualcuno già ti aspetta, non lo fare più aspettare. / Via! Vai per il mondo. / E portami buone nuove.

                                                                                           
                                                                                                                                    Piero Carbone
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lunedì 16 luglio 2012

“Lo scandalo della Sicilia”

così lo chiama Giuseppe Carlo Marino

Mi piace pensare al popolo siciliano del dopoguerra composto prevalentemente di contadini come un popolo saggio e non certo pervaso in larga parte di cultura mafiosa come qualcuno sostiene. A tale proposito ci viene in soccorso Giuseppe Carlo Marino precisando che non si tratta di una sua colpa o di “una qualche originaria affinità antropologica tra la cultura popolare siciliana e la mafiosità”. La cultura mafiosa del popolo siciliano è effetto di “EGEMONIA”. Cosi scrive infatti Giuseppe Carlo Marino nel suo ultimo libro GLOBALMAFIA:

<<In qualsiasi sistema organico di egemonia, ha ben spiegato Antonio Gramsci, si crea una situazione nella quale le forze egemoni conseguono un’autorevolezza che in genere gli egemonizzati accettano senza obiezioni, tendendo addirittura ad avvalersene e a nutrirsene essi stessi, comunque avvertendo il dominio che li sovrasta come l’espressione di un ordine necessario assimilabile all’ordine naturale del vivere e del pensare. [……]. Di qui, tramite il comune registro delle tradizioni, si è realizzato un costante travaso al popolo dei valori elaborati e presidiati dai ceti dominanti. [……]. E furono loro (i baroni e i gabellotti n.d.r.) – pervadendo dall’alto del loro conseguito potere, come si è già ricordato, e giova ripetere, il mondo culturale tradizionalista di una società di poveracci analfabeti – ad “istruire” il popolo, mostrando come l’illegalismo possa generare ricchezza, come dalla ricchezza comunque conseguita, e tenacemente preservata dal poco al molto, scaturiscano le condizioni sociali della “valentia” e del “rispetto” e, quindi, dell’onorabilità e dell’”onore”; e chiamando tutto questo, con enfasi e passione, “Sicilia”.

Per fortuna, ci ricorda Marino, con Gramsci, esiste la CONTROEGEMONIA e quindi
abbiamo i Fasci siciliani e le lotte contadine del dopoguerra.

Scrive ancora Marino: <<In seguito, l’aprirsi della democrazia alla storia del socialismo avrebbe esercitato un ruolo determinante nel liberare dalla passività ampie masse popolari (dalle lotte dei Fasci dei lavoratori di fine Ottocento a quelle ancor più drammatiche contro i latifondisti e i gabelloti nel primo e nel secondo dopoguerra) generando una sempre più ampia e capillare consapevolezza sociale dell’oppressione e inducendo contestuali tentativi di riscatto e di liberazione mediante organizzate azioni “antimafia” interne al conflitto tra le classi.>>

Ed ecco il punto del discorso di Marino che più mi interessa focalizzare e cioè quello che egli chiama “lo scandalo della Sicilia” . Scrive Marino <<Resta comunque da rilevare (purtroppo) che UN’EGEMONIA ANTAGONISTICA non è mai riuscita in Sicilia a prevalere nettamente e, meno che mai, a stabilizzarsi. Il fronte cultura politica progressista+democrazia popolare, nei fatti, è risultato sempre sconfitto. Drammaticamente, spesso tragicamente, sconfitto; lasciando sul terreno centinaia di vittime e di martiri. Ed è questo il più inquietante dei retaggi che la storia siciliana continua a lasciare all’Italia e al mondo, un retaggio tenace che, in altro opera [Marino, 1993] si è già indicato come “lo scandalo della Sicilia” : uno scandalo da non riferire ad un’antimodernità e a un’arretratezza cronicamente tutelate e addirittura rivendicate in nome di speciali “valori” e tradizioni, ma che consiste, piuttosto “nel costante riassorbimento delle spinte innovatrici, e persino dei loro parziali esiti positivi, da parte dell’egemonia politico-culturale della società mafiosa”.

Sintetizzando possiamo dire che i tre punti della questione sono:

1) c’è un popolo siciliano pervaso di cultura mafiosa per effetto di EGEMONIA

2) C’è stata una CONTROEGEMONIA.

3) lo scandalo della Sicilia”, cioè il “costante riassorbimento delle spinte innovatrici, e persino dei loro parziali esiti positivi, da parte dell’egemonia politico-culturale della società mafiosa”

Si tratterebbe di un concatenarsi di “verità”, l’una non separabile dall’altra, l’una non spiegabile senza l’altra. Ma se delle tre verità sopra evidenziate una non “funziona” allora potrebbe essere possibile dubitare delle altre?

Ecco cosa secondo il mio modestissimo parere non funziona. Non è vero che il grande movimento dei Fasci e l’altro grande movimento delle lotte contadine sono stati RIASSORBITI da parte dell’egemonia politico-culturale della società mafiosa. I contadini siciliani sconfitti non sono stati risucchiati passivamente dalla cultura mafiosa della classe dominante; sono semplicemente EMIGRATI, hanno SCELTO di emigrare. Di questo non trovo traccia in Marino. 

Un MILIONE di siciliani sono emigrati dopo la sconfitta dei Fasci, un MILIONE E MEZZO nel dopoguerra, una vera ferita nel corpo della Sicilia, la cui “onda lunga” come la chiama Umberto Santino, ancora si fa sentire.

Giuseppina Ficarra
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