«Gli
uomini muoiono perché non sanno congiungere l’inizio con la fine», scriveva
Alcmeone di Crotone, ma ne L’ultima estate di Catullo, c’è una cornice fluida
di acqua e memoria, in cui l’inizio e la fine si incontrano sulla riva di un
lago, in cui una vita intera si può raccontare semplicemente guardando le onde,
nel loro fuggire continuo e nel loro continuo tornare.
Affacciato
sull’acqua, in una villa posta alla fine di una striscia sottile di terra, un
bambino ha trascorso estati calde di giochi, di spade di legno e palle di
stracci; oggi un uomo, con la testa pesante su un corpo provato, in un’estate
malinconica e quasi autunnale, ricorda amaramente e crudelmente narra. Potrebbe
farlo in versi, perché è un poeta, ma non sarà lui a parlare stavolta;
attraverso la sua bocca parleranno le onde. «Il lago si chiama Benàco. La
lingua di terra Sirmione. Il poeta Catullo».
Il
primo capitolo, che ha tutte le caratteristiche di un proemio epico: la prima
parola indica l’argomento della narrazione e la penna dell’autore si dichiara
strumento attraverso cui la Musa può scrivere il suo divino racconto. «Un uomo.
Solo. Seduto davanti a un lago. [...] Musa, vergine patrona, racconta tutto
quello che sai di lui». Uomo è la prima parola. L’uomo, cullato dalle onde e
invecchiato dal pensiero, è il centro, il nucleo motore dell’azione del
ricordare.
Gli
incontri con i personaggi, invece, si costruiscono attraverso il dialogo, il
genere tanto caro a Socrate e Platone che era tornato in voga a Roma con
l’avvento della tragedia e soprattutto della commedia; un dialogo dai toni a
tratti molto accesi, colorato da storie di donne e di amore fisico. C’è la
discesa nell’Ade, ci sono i banchetti, ci sono le indovine. La primadonna è Clodia,
moglie del console Quinto Metello Celere, donna che appare angelica a Verona,
con il marito, la pelle di petali di rosa e gli occhi ardenti. Catullo si
innamora di lei da lontano, con quell’amore devastante che è condiviso con
diverse forze, istinti e passioni da tutte le specie animali; l’amore si
abbatte come un morbo, provocando gli stessi riconoscibili effetti che Saffo
prima di lui aveva descritto: «La notte sugli occhi. Un rombo alle orecchie. La
lingua paralizzata [...] io ero più verde dell’erba» (cfr. Saffo, Effetti
d’amore). L’immedesimazione con la poetessa di Lesbo, lontana nel tempo eppure
a lui unita dallo stesso crudele destino, è forte al punto che Catullo farà
della sua Clodia la nuova signora di Lesbo, ribattezzandola Lesbia.
Ma
l’amour de loin è condannato a divenire un amore bestiale; dopo la morte del
marito, Lesbia diventa una figuretta imparruccata e viziosa, che sparisce nella
notte per darsi agli schiavi e ai figli degli schiavi, per offrire il suo
bianco ventre al fango. Si sporca, Lesbia, e con lei il suo nome: adesso è
Lycisca, la ragazza-lupa, ancora fonte inestinguibile di amore per Catullo, ma
anche, da adesso, di odio. Siamo nella fucina dell’Odi et amo («Volere una cosa
e poi non volerla più e poi rivolerla e disvolerla ancora [...] perché io
l’amavo e l’odiavo e la riamavo e la riodiavo e la riamavo e la riodiavo
ancora, all’infinito e non sapevo perché»).
Ogni
episodio narrato giustifica e conferma il trionfo della poesia rispetto alla
cruda realtà. La poesia e la storia, i versi e l’esistenza, il corpo e l’anima
si confrontano e a tratti confondono, ma è sempre la poesia a sedurre e
ipnotizzare con la sua potente capacità di dare forma e bellezza a ciò che
potrebbe essere, ma ancora non è e a ciò che già esiste, ma che in versi può
nascere a una nuova vita, perché «tutto possono le parole. E un poeta è il loro
padrone, e il loro schiavo».
Il
racconto di Catullo sembra rivolgersi continuamente a quella civiltà dal
lontano splendore come una guida, una Stella Polare lucente nel buio del tempo.
Chiara Fratantonio
Bravissima Chiara!
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