martedì 29 gennaio 2013

IL MONDO DENTRO


Se ne stava,  solo e pensoso, ad osservare dalla finestra la gente che passava per strada.

C’era un gran movimento, tutti quelli che passavano sembravano avere una gran fretta di raggiungere il posto dove erano diretti. Impegnati così come erano in questo compito, neanche si accorgevano di chi passava loro accanto. Se  padri e figli, fratelli e sorelle si fossero incrociati, non si sarebbero sicuramente visti né riconosciuti. Era una folla di gente sola. Un vortice umano risucchiato dall’efficienza. Eppure erano esseri umani, fatti di carne ed ossa, con i loro pregi, i loro difetti, i loro vizi e le loro virtù. Nell’aria si avvertiva elettricità, dinamismo, frenesia. Veniva quasi voglia di unirsi a quella folla soltanto per il gusto di vedere cosa si provava a correre e dove si andava a finire. L’idea che ne veniva fuori da tutto quel gran correre era di grande efficienza e produttività.

Provando ad affacciarsi sporgendosi il più possibile dalla finestra, riusciva a vedere alti palazzi e imponenti edifici grigi, come il cielo che li sovrastava. Le strade, grigie anch’esse, si diramavano,  si incrociavano, ma tutte portavano in direzione di uffici, scuole, fabbriche, luoghi di lavoro dove quella folla veniva inghiottita la mattina per riuscirne fuori e ripercorrere il tragitto inverso la sera.

Ogni giorno gli si presentava sempre la stessa scena. Mattina e sera. Chissà a casa, poi, come si svolgeva la loro vita. Se,  quella frenesia, quel correre, continuava anche tra le mura domestiche o se, come un giocattolo il cui meccanismo a corda si era scaricato, si fermava e taceva. Ecco, lui  li vedeva così a casa, giocattoli esausti, inanimati. Si chiedeva come mai lui fosse lì ad osservare tutto quel movimento e a non farne parte. Un dubbio lo assalì. Forse, per un motivo qualsiasi, lui doveva avere qualcosa che non andava e questo lo obbligava, per quel difetto di fabbrica, a stare da parte come uno scarto, per non rallentare quell’ingranaggio, quell’attività frenetica che si svolgeva lì fuori. Doveva essere inadeguato a svolgere quelle mansioni.

Ed infatti, a riprova che aveva qualcosa che non andava,  gli capitava sovente di avere delle singolari visioni. Erano immagini che passavano nella sua mente come in un film. Erano immagini di fitti boschi, alberi secolari. Campi verdi, ricoperti di papaveri e di margherite. A volte, erano montagne e colline e prati. A volte, cavalli che correvano in libertà su vaste praterie. Colline, su cui si inerpicavano caprette curiose e pecore pazienti. Vedeva distese di  iris selvatici, teneri bouquet che a gruppi coloravano, di quel loro tenue viola, bordi di strade e fazzoletti di terra qua e là. Campi di grano del colore dell’oro. Valli attraversate da  fiumi, che scavavano la loro via disegnando percorsi, strade d’acqua. Vedeva il passaggio quieto dell’acqua di un fiume scintillante per i raggi del sole, che leggeri, vi si posavano sopra. Quella stessa acqua così quieta qui, più in là si agitava diventando impetuosa per il  giro e poi il salto che il percorso le obbligava a fare. Nella mente gli apparivano mandorleti dai candidi fiori bianchi appena sbocciati, riusciva a sentirne il profumo, inebriavano, confondevano  i sensi. Sentiva la musica  del vento che passando tra gli alberi e i rami creava melodiose sinfonie. Ne vedeva volteggiare i petali, di quei mandorli. Si staccavano per la carezza del vento e,  come soffice neve, dopo un lieve volteggio,  si adagiavano sulla terra.

E poi pescheti, uliveti…

Nella sua mente visioni di sequoie giganti, enormi ghiacciai. Era commovente vedere sbucare timidamente dalla neve quei  teneri e forti bucaneve, presagio di un’imminente primavera.

Sicuramente c’era qualcosa di sbagliato in lui. Questo effluvio di immagini, che gli inondava la mente, era frutto della sua fantasia o era realtà? Dove poteva averle già viste ? A tal proposito non aveva memoria. Doveva, sicuramente, essere il frutto di una mente malata, ma di una  malattia che non gli  dispiaceva. Quella folla di immagini che popolava la sua mente gli regalava sensazioni,  emozioni, lacrime, commozione.

Era l’anno  2100 e non esisteva un angolo della terra simile a quello che alloggiava nella sua mente. Un tesoro custodito gelosamente a cui aveva accesso solo lui.

Ecco, doveva essere veramente malato, affetto da una grave patologia che lo rendeva alieno al mondo esterno e lo portava in un mondo interiore, invisibile agli occhi altrui.

                                                                                                                Brigida Bellomo
Stampa il post

1 commento:

  1. Diverso, malato... Sì, oggi una persona che non si conforma alla massa,che non si fa trascinare da questo fiume in piena, che si rifiuta di conoscere i meccanismi che muovono i loro ingranaggi è MALATO,o peggio ancora arriva a convincersi, da solo di esserlo, credendo che l'errore stia nel credere di poter vedere quei meravigliosi prati verdi.. ma la magioranza è abituata a quelle giornate sbiadite, senza un reale senso, o una reale sensazione/emozione, per cui chi riesce ancora a vedere,cercare,immaginare o solo sognare questa sorta di "locus amoenus" è pazzo...!!! I pazzi siamo noi ad etichettare, a criticare e a condannare.. Anche se a volte sono solo fantasie, non ci rendiamo conto che basterebbe solo fantasticare di più per non diventare uno dei tanti "prodotti finiti" di questa grigia società..! Complimenti, ancora una volta mi hai stupita e appassionata a questo tuo modo di scrivere... Grazie.
    Simona

    RispondiElimina