Il mio viso non si
scollava dal finestrino; riconoscevo la campagna, così caratteristica e unica
che definiva un territorio a me caro. La “littorina”, superando il ponte del
Carmelo, giungeva sull’ultimo rettilineo prima di arrivare alla stazione.
Cumuli di sale erano ammassati oltre l’ultimo binario, addossati a dei
fabbricati fatiscenti. La campanella della stazione preannunciava un altro
treno in arrivo, forse da Agrigento. Un ferroviere, addetto alla manovra, una
bandiera arrotolata in mano, girava la manovella del vicino passaggio a
livello, accanto alla pompa dell’acqua. Un vecchio carrello in legno,
sbilanciato in avanti, esposto alle intemperie, stava lì abbandonato, addossato
a uno steccato in cemento, sotto un albero basso, sempre verde.
Io, mia madre e
mia sorella, scendevamo da quel treno, il freddo era pungente, l’aria un po’
assonnata ma contenti di essere finalmente a Racalmuto per quei pochi giorni di
Natale. Mio padre ci avrebbe raggiunti a fine lavoro. Mi aspettavano giorni
eccitanti, piacevolmente intensi, tra le coccole dei miei nonni, le buone
pietanze preparate in casa e le corse in piazzetta o sulla scala di sant’Anna.
Ci affrettavamo a scendere la via che ci avrebbe portato in paese. Le donne, a
quell’ora, mantiglia sulle spalle, erano intente a spazzare davanti l’uscio di
casa con la “riviglia” o quelle scope di
sagina che producevano, strusciate sul terreno, un tipico rumore. Al nostro
passaggio si bloccavano e rimanevano così, come nel gioco delle belle statuine,
incuriosite da tre persone che non riuscivano a collocare tra le loro
conoscenze.
Superata la centrale elettrica – adesso Fondazione - si intravedeva
un paese dall’aria incantata, sprofondato per metà nella nebbia, sorpreso
appena al risveglio. La prima tappa in via Cristoforo Colombo, la nonna
paterna. Io e mia sorella spazientiti, avremmo volentieri abbreviato quella
visita, proiettati come eravamo, verso nonna Maria e nonno Ciccio, genitori di
nostra madre. Dopo la preparazione di un caffè per mia madre, i chicchi
macinati al momento con un macinino a manovella e quell’odore tipico tra
l’umido e la bevanda calda sul fornello, io e mia sorella ricevevamo qualche
spicciolo “ppi li carusi, ppi auguriu” come diceva mia nonna Rosalia.
Salutavamo e, scese le ripide scale della casa, si percorreva la via Cristoforo
Colombo, verso via Asaro e giù, infine, per la “scinnuta di sant’Anna”.
La
campanella della chiesa faceva sentire i suoi rintocchi leggeri, quasi stonati,
come se volesse salutare il nostro arrivo. Già la piazza brulicava di persone,
chiaro sintomo di vive attività. Asini e muli, carichi di generi vari, per lo
più prodotti della campagna, sostavano in vari spazi della strada. Grandi feste
appena si metteva piede in casa. Stretto tra le braccia di mia nonna ne sentivo
piacevolmente il profumo familiare. Potevo finalmente fare di tutto. Per quei pochi giorni, nessun
rimprovero era consentito. Quando ho bisogno di riprendere il senso della mia
vita, il filo conduttore, un equilibrio che non sempre è stabile, non sempre è
precario, spesso con la mente ritorno a quei giorni e a quei luoghi, popolati
ancora da tante figure a me care.
Racalmutese Fiero
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