C’era una volta, non tanto lontano da qui,
e non tanto lontano dal mare, un paese molto bello. Tanto bello che nessuno
voleva lasciarlo. E, il solo pensiero, faceva scorrere, giù per il viso,
lacrime salatissime a chiunque. Un piccolo paese in collina che, come tanti
paesi del sud, viveva di sole, di terra,
e di fatica. Gli abitanti erano
dei grandi lavoratori, gente
semplice, vera, di poche parole che lavorava dall’alba al tramonto. I
divertimenti erano scarsi, giusto le feste comandate e, naturalmente, quella
della patrona, a cui erano devotissimi tutti. Ma nessuno si lamentava perché, per divertirsi,
bisognava avere tempo e denaro da spendere e, queste, erano le sole due cose
che scarseggiavano in quel paese laborioso e assolato, ricco di tanto altro.
Era un popolo fiero. Negli ultimi tempi
era sorto un problema di non poco conto: sembrava, e i fatti lo
dimostravano, che tutto andasse a rotoli. Sembrava che la terra si fosse
scocciata di dar frutti e si beffasse degli affanni dei suoi lavoratori. Sembrava
che il tempo si fosse scordato delle stagioni. E la pioggia, al momento giusto, una
benedizione, al momento sbagliato, una catastrofe, puntualmente, arrivava al
momento sbagliato. Arrivavano le gelate, quando i germogli erano teneri. Le
grandinate, quando i frutti erano quasi da raccogliere. Sfumava tutto quello
per cui si era lavorato tutta una stagione. E poi un anno. Di anno in anno.
Mancava solo l’invasione delle cavallette. Se in campagna andava male in paese
andava peggio. Nessuno costruiva, nessuno vendeva, nessuno comprava. Nessuno si
capacitava. Il paese sembrava preda di
un incantesimo. E tutto, veramente tutto, si era fermato. Come in una fotografia. Eppure bastava volgere
lo sguardo nelle terre dei paesi vicini, oltreconfine, e si potevano ammirare
fiori e frutti in abbondanza. Raccolti
generosi. Campagne rigogliose. Era figlio di quel paese un uomo, un
vagabondo cresciuto da solo, ( ma, non illudiamoci, in un paese non si è
mai soli ) .Era un vagabondo paesano,
nel senso che, non si allontanava mai dai confini del paese. Si chiamava Calò.
Alto, fisico asciutto. Il viso bruciato dal sole. Occhi furbi. Amava cantare e,
quando passava per le vie, sfoderava tutto il suo repertorio musicale, la sua voce lo annunciava a distanza. Quando
qualcosa gli andava storto, e capitava a volte, allora il registro
cambiava. Dai canti passava alle litanie
dei santi. Nel qual caso , se c’era qualche bambino in giro , meglio coprirne
le innocenti orecchie. Viveva di quello
che riusciva a racimolare girando per le
campagne. La mattina presto, se il tempo era buono, andava a piedi e
raccoglieva tutto quello che trovava:
verdure, legna, lumache. Si
piazzava poi all’incrocio della piazza e aspettava pazientemente che
qualcuno si avvicinasse. A volte, capitava che vendesse pure delle uova, ma,
quelle, non spuntavano nei campi. E se qualche massaia se la prendeva con le
proprie galline, che non facevano uova,
pazienza. Peccati veniali. Viveva da solo,
da quando la madre era sparita. Allora aveva tredici anni, o poco più.
Su di lei, in paese, si era detto di
tutto. Ogni paesano aveva la sua opinione in proposito, ed era convinto di
essere il depositario della verità, lui e lui solo. Poiché il paese era abitato
da circa quattromila abitanti esistevano una quantità infinita di verità
assolute. E ognuno poteva scegliere quella che più gli piaceva! Oppure farsene
una propria prendendo un po’ qui e un po’
là. Era cresciuto in fretta, ombroso e selvatico e viveva in una
piccola, povera casa spoglia. Che era stata la casa della nonna paterna, morta
poco tempo prima. Quattro mura racchiudevano una stanza che era tutto:
ingresso, cucina, salotto, camera da letto. Per il bagno si usciva fuori, la porta accanto. Soffriva di una forte
intolleranza all’acqua e al sapone. Una volta, da ragazzo, alcune vicine
premurose erano riuscite ad acchiapparlo, lavarlo e vestirlo con abiti freschi di bucato. Sembrava un altro. Non si
riconosceva. Calò, però, non aveva apprezzato
tante attenzioni. In paese,
ancora se lo ricordano. Strepitò e corse per tutto il pomeriggio, come
un indemoniato. Quell’episodio lo rese celebre tanto che, tutte le mamme, con
figli affetti dalla stessa sindrome, da allora in poi, lo citavano, appellando
i figli con il suo nome. Non si sapeva la sua l’età, e, a guardarlo, era indefinibile. Quaranta, cinquant’anni forse.
Un giorno, al solito giro per le vie del
paese, Calò sentì nell’aria qualcosa di diverso. Uno strano silenzio regnava
per il paese che, di solito, riecheggiava di grida di bambini e voci di
donne che parlavano in confidenza da un
balcone all’altro. Una vecchina, che
prendeva il sole seduta davanti all’uscio di casa, in compagnia di alcune
vicine, parlava di tempi brutti che non volevano passare. Calò, a sentirla,
mugugnò: “Ma quali tiempi! la curpa è di lu nomi”. Che voleva dire? Nessuno
capì e nessuno si prese la briga di
approfondire. Da allora, però, capitava di sentirlo borbottare spesso. Ripeteva
quella frase a tutti quelli che incontrava. Per giorni e giorni. Ma nessuno gli
badava. Da piccolo,qualcuno, forse il parroco, gli aveva spiegato l’origine e
il significato del nome del paese. Glielo avevano dato gli arabi che, in epoca
medievale, si erano insediati lì, dove
avevano trovato un villaggio decimato dalla peste. Quel nome, col passare del
tempo, era rimasto sostanzialmente uguale, solo qualche “limatura”, nel
passaggio dalla pronuncia araba a quella sicula. “Villaggio morto”, in arabo: “Rahal Maut”.
“Che futuro può avere un paese che, quando nasce, è già morto?” - Questo si
deve essere chiesto Calò. E, in effetti, secondo questa logica i conti
tornavano. Hai voglia di lavorare , di faticare, di buttare sangue. Non c’era
futuro. Pian piano si era fatta strada
la rassegnazione. Si era allargata. Espansa. Aveva cominciato a far parte del
DNA di quel luogo, la si respirava
nell’aria, la si beveva nell’acqua delle fontane, la si mangiava a tavola con
il pane. Ecco, nomen omen, tutto spiegato.
Ma, una notte, uno degli abitanti di quel paese tanto bello, non riuscendo a
dormire , girandosi e rigirandosi nel letto, ebbe una rivelazione: nella sua
mente, scolpite, apparvero le parole di Calò e il loro significato esatto. Proprio così. Mentre tutti si erano
arrovellati a cercare, e a non trovare una causa per quegli accadimenti, era
arrivato lui e aveva spiegato, in due
parole, la ragione di tutto. Calò, l’uomo semplice, l’uomo della strada, aveva
visto e trovato, quello che tutti non avevano
saputo vedere e trovare. Colto dall’eccitazione, corse fuori per strada
e cominciò a gridare a tutti di scendere, sembrava un forsennato, correva, correva e
gridava. Spaventati scesero tutti. In poco tempo, tutto il paese si radunò in
piazza. Fu come se un velo fosse
scivolato via e avesse svelato l’incanto di quello che era stato sospeso nel
tempo. Tutti seppero in quel momento cosa fare. Tutti assieme si diedero da
fare. A volte la soluzione è così
semplice che ci sembra banale e la scartiamo senza neanche considerarla. Fu un
lavoro a cui parteciparono uomini, donne, bambini, anziani, per giorni. Alla
fine, come primo atto,venne bandita dal paese la parola RASSEGNAZIONE. Per legge,
nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe dovuto più
rassegnarsi ad un avvenimento contrario, un accadimento, se non dopo
avere provato e riprovato più volte a rimediare, aggiustare, valutando tutte le
possibilità , anche le più assurde. Questo per legge. Il nome del paese poi
doveva cambiare per cambiarne la storia. D’altronde era già accaduto con
Malevento, dopo la sconfitta di Pirro. Non fu cambiato tanto, ma, quel tanto che bastò per dare un
impulso vitale, un corso nuovo. Tutti collaborarono e lavorarono alacremente in
armonia e sintonia per un obbiettivo comune: il benessere di tutto il paese e
dei suoi abitanti. Lo vollero veramente e questo fece la differenza .Meraviglia
delle meraviglie. La terra cominciò a dare abbondanti frutti. Le piante
sembrarono rivivere di nuova vita. In poco tempo tutto cambiò. E fu così che ,
come in tutte le favole, vissero tutti felici e contenti.
FINE
Brigida Bellomo