mercoledì 2 maggio 2012

C'era una volta.....

Le putìe di vino (e le parole spente)

Nelle città si chiamano “enoteche”, frequentarle, come si dice, fa tendenza, e i giovani che sono “tendenziosi” - guai a non seguire le mode! pena l’emarginazione e l’isolamento - le frequentano assiduamente. “Teca”, dal sanscrito thèke che vuol dire “contenitore”, per tanto tempo ha indicato la piccola custodia in cui il sacerdote poneva l’ostia consacrata per recarla a un infermo, prima di morire, con tanto di processione. Era sostantivo. Nel mondo laico, “teca” è un suffisso, più vitale, che ha avuto fortuna, come gustosamente e con vero divertimento si apprende dalle insegne di panino-teche, crèpes-teche, disco-teche, etc.
Quando a Palermo, dove vivo, vedo modernissimi giovani punk bivaccare in gruppi davanti alle enoteche mentre discorrono di musica rock, si scambiano le e-mail e si mostrano i piercing, a me, che sono di paese, vengono in mente quelle che nella civiltà contadina erano le putìe di vino, dimenticata genesi delle cittadine enoteche. Una buona ragione, questa, per evocare la trasformazione di un mondo assieme alle parole che lo designavano.
Putìa deriva, presumibilmente, dal francese boutique, ed era una vera e propria bottega per la vendita del vino al dettaglio o taverna sui generis. Le putìe si suddividevano in stagionali ed annuali. Non c’erano insegne, ma si capiva che la putìa era aperta dal mazzo di alloro, dalla bottiglia piena di vino e dalla lampadina accesa penzolanti dall’architrave.
Ogni quartiere aveva la sua putìa stagionale, ogni putìa un vino diverso e qualcuna anche delle specialità. Piscialièttu volle aggiungere alle tradizionali insegne una grattuggia arrugginita infìochettata con svolazzanti nastri rossi e puntute corna di bue: secondo una sua personalissima simbologia, voleva dare ad intendere che nella sua putìa si beveva solamente e la Michilina che si era messa in casa era diventata una morigerata signora, ormai.
Le putìe più importanti, aperte tutto l’anno, si trovavano nelle immediate adiacenze della Piazza principale, nel tratto di corso dove aprivano i migliori negozi, avveniva il passeggio e si combinavano gli affari. Era costume che le comitive di amici andassero a prendere “un bicchiere”. Carrettieri, zolfatai e salinari andavano alla putìa della zza (sta per zia) Narduzza e dello zzi Narduzzu; i rigattieri, cioè i commercianti di muli e asini, da Ancilinu, da don Nenè o alla “Conca d’oro” che fungeva anche da osteria; i contadinii, i muratori, i calzolai, i fabbri, i falegnami i mezzani, i disoccupati, i viziosi del gioco e la categoria degli sfaccendati e mangiapane a tradimento (chiazzalòra) non ne frequentavano una in particolare ma ne “visitavano” diverse fra pomeriggio e sera. “Girare le chiese” o “visitare i sepolcri” si diceva un tale pellegrinaggio, mutuando il detto dall’usanza di entrare in tre chiese diverse il Giovedì Santo per lucrare le sacre indulgenze. I peccatori incalliti più bisognosi di indulgenze se le giravano tutte.
Ci si procurava del lardo di porco, sarde salate comprate da Ticcbitì, provolone da Zammìtu, passulùna (olive nere stagionate) da Marrabbina, un po’ di pane e si andava a fare schitìcchiu. Un dizionario lo spiega così: “Sollazzevole cibarsi in più persone di buon umore, con bibita sia di giorno, sia di sera, o in città o in villa, o per rata o a spesa di uno solo”.
I rigattieri solevano ripartire il conto in quote uguali, i carrettieri invece pagavano alla romana. La bibita era ovviamente vino, qualcuno vi aggiungeva acqua di selz o gazzosa per stemperarlo, chi era “offeso di stomaco” lo “battezzava” con innocente acqua.
Oltre ai succitati cibi che costituivano la scaglìddra (letteralmente: scaglietta, qualsiasi cibo rustico senza pretese e in modica quantità, un pretesto per bere), le cibarie che stuzzicavano il palato e l’esofago delle sollazzevoli compagnie erano la quintessenza della cucina siciliana antica, perfino i nomi di quelle pietanze risultano esotici: robba cotta (interiora e lingua di bue, piedi, coda e altre parti di maiale bolliti); ceci neri con giri, molto pepati e conditi con olio d’oliva; sangunazzu (sanguinaccio, vivanda di sangue di porco condito d’aromi, aglio, uva passa e imbudellato con altri ingredienti ancora in grossi rocchi, quasi “boteriani”); ficatu e purmùni (fegato e polmone spezzettati e ben fritti); bbabbalùci (chiocciole, Helis pomatia), iudìsca o scataddrìzzi (lumache, Limax) e muntùna o crastùna (martinacci, Coclea terrestris maxima) preparati con il sughetto, cipolle e patate; bbabbalucièddri (chioccioline, chiocciolette) insaporiti con olio, aglio e prezzemolo; cardùna (cardi, Cynara cardunculus) bolliti o fritti con pastetta. e via prelibando.
I “quartini” o bicchieri di vino, così detti poiché ciascuno misurava un quarto di litro, si susseguivano con incredibile celerità allo scopo di “ammazzare” nello stomaco tutta la roba ingollata. Alla putìa della zza Narduzza voi trovavate patate lesse, uova sode, marsala, vèr-mut e petrolio per i lumi domestici: tutti allineati con femminile cura sullo stesso bancone. La Putiàra non mancava di una certa eleganza.
Altri tempi, altra igiene. Altra Allegria.
Si motteggiava. I viddràna ovvero i contadini ai carrettieri:

Quantu va un viddranu ccu na mula Cièntu cci nni vuònnu carrittera.
(Quanto vale un contadino con una mula / ce ne vogliono cento di carrettieri.)

I carrettieri in risposta:

E lu viddranu ccu la so grannizza
Si mancia pani ccu la cipuddrazza.
(E il contadino con la sua grandezza / si mangia il pane con la cipollaccia)

Si cantava. Erano strofe di otto, quattro, due versi, inventati lì per lì o tramandati. Passerini gorgheggiava:

A sta picciultèddra cu’ la mungi?
Pensa a lu primu amuri e sempri chianci.
(A questa picciottella chi la munge? / Pensa al primo amore e sempre piange.)

Si brindava. Il vino assurgeva a simbolo di valori sociali condivisi e imponeva regole; quello dei brindisi lo si doveva tracannare fino in fondo scolando i bicchieri fino all’ultima goccia, non lo si poteva rifiutare: lo rifiutò compare Alfio nella Cavalleria rusticana e ne seguì mortale duello.
Il vino nei brindisi era o rosso o bianco e sempre fino. Dopo la rima si tracannava. Un altro brindisi, un’altra bevuta, allegramente. Di frequente il bicchiere troppo colmo, prima di alzarlo con il pollice, l’indice, il medio, l’anulare, addirizzando l’arzillo mignolo a coda di gatto contento, veniva un poco svuotato chinandosi verso di esso, accostando le labbra e sorbendo dall’orlo con risucchio. In tempi di irripetibile e acceso agone politico, fra il dopoguerra e gli Anni Cinquanta, andarono a brindare pittoreschi trascinatori di folle. Capipopolo e codazzi di popolo assommavano alle intemperanzc del vino l’intemperanza della foga politica:

Ammèci d’acqua acìtu haiu vivutu,         
sugnu sicuru ch‘è vinu guastatu.
Ammèci di biancu, russu vutàmmu
quantu jàmmu n-culu a lu Cuvernu.
(Invece d’acqua, vino ho bevuto,/ almeno so ch’è vino guastato. / Invece di bianco, rosso votiamo / così in culo al Governo andiamo.)

E giù vino rosso, naturalmente, senza astio o pregiudizio però per il vinello bianco, anticipando di molto le commistioni partiticopolitiche del tempo a venire.
Nel San Giuvanni decullatu di Nino Martoglio, atto secondo, scena quarta, Mastru Austinu spara a raffica “sbrindesi” a rima baciata senza sbagliare un colpo, rivelando abilità e nostrale sense of humor. I Mastri Austini, gli improvvisatori, abbondavano negli schitìcchi di una volta; forse l’alloro posto come insegna davanti alle putìe di vino conferiva, complice l’alcol, scioltezze poetiche e rimaiole.
Così una volta.
Ora che le putìe di vino sono scomparse e le loro discendenti si chiamano in altro modo, ci si diverte, ci si sfoga, ci si annoia diversamente. Pazienza! se non vengono fuori, quasi come un dono di natura, spumeggianti “sbrindesi” né in rima sciolta né in rima baciata.
Ma perché brindare? Sono subentrati altri linguaggi. Altri convivi. Altri silenzi.
Né per riaccendere antiche allegrie varrebbe porre gli antichi mazzi d’alloro accanto le moderne insegne in plexigas: rischierebbero, quest’ultime, di illuminare parole spente.

Piero Carbone 



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10 commenti:

  1. Complimenti al prof Carbone, una pennellata di nostalgici ricordi e complimenti al blog per una nuova e intelligente interpretazione dell'informazione, della cultura e dell'opinione.
    Le idee non devono avere grandi gambe ma gambe lunghe sì

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  2. Bravissimo Piero, continua a dilettarci con i tuoi piacevolissimi scritti.
    Gero Drago

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  3. Una Racalmuto che non c'è più.Un pezzo di storia, di cultura, di tradizione andata via.Un velo di tristezza nel leggere le parole del bravissimo prof Carbone.Grazie
    Alfonso Failla

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  4. Stupendo il post di Piero Carbone. Bellissima e azzeccata la foto.
    Giuseppe Amato

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  5. Ma il prof Carbone fa parte della redazione del blog? Se sì, sono arcicontenta.
    Una assidua lettrice

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  6. Dopo il post su Zammitu, adesso questo sulle putie di vino.....
    Leggere è come immergersi nei fatti, nei luoghi, con i personaggi.
    Complimenti

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  7. Luoghi scomparsi, sapori scomparsi, profumi scomparsi, quanta nostalgia! Ma in fondo è scomparsa solo la nostra gioventù. Complimenti a Piero Carbone.

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  8. Io non li ho vissuti quei tempi, ma erano i racconti di mio nonno.
    Angelo

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  9. Gli uomini nelle "putie" e le donne, a casa, in trepidante attesa. Adesso non sarebbe più possibile una simile realtà. Forse è un bene, forse no.
    Lorenza

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  10. Un grazie di cuore per gli apprezzamenti e l'attenzione: ciò mi spinge a tirare fuori altre annotazioni. Piero Carbone

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