martedì 19 marzo 2013

SAN GIUSEPPE


Lo vedevo passare ogni giorno davanti casa accompagnato da uno stuolo di gatti. Camminava a passi lenti, misurati, affidando ad un bastone  la stabilità del suo incedere. Era un vecchino piccolo di statura e magro, infagottato in una giacca dal colore incerto, di almeno due taglie più grande. Viveva da solo,  ma aveva la compagnia di tutti i gatti randagi del circondario che aveva adottato. Stava  a contatto più con loro che con gli umani. La sua casa,  ad un centinaio di metri salendo su per la strada dove abitavo, era una sorta di magazzino a pianterreno, dove ammassava  tutto quello che riusciva a raccogliere. Se ci si trovava a passare da lì ed era una bella giornata, capitava, a volte, di vederlo seduto fuori a prendere il sole attorniato dai suoi gatti con cui, solitamente, divideva i pasti. Non di rado lo si vedeva salire con scatole e scatoloni di cartone raccattati in giro per il paese.  Aveva poi una singolare abitudine, quella  di prendere tutte le immaginette di santi e i pezzetti di carta che trovava in giro e infilarli, dopo averli ripiegati con cura, nelle fenditure dei muri delle case vecchie. Quando scendeva giù per la strada era  preceduto da almeno due, tre  gatti che lo scortavano fino ad un certo punto, e poi se ne tornavano indietro, troppo pigri, forse, per proseguire o semplicemente perché il loro compito finiva lì. Lo andavano poi a riprendere quando risaliva. Era questa una cosa veramente strabiliante. Come riuscissero a prevedere il momento del rientro era proprio un mistero. Il suo modo di respirare somigliava al ronfare di un gatto e noi bambini pensavamo fosse causato proprio dallo stretto contatto con i felini. Non ne conoscevamo il nome e neanche la voce, per noi era semplicemente san Giuseppe. Questo perché una volta mia madre, come ex voto a san Giuseppe, a cui era devotissima, aveva allestito una tavolata, invitando, tra gli altri, anche lui, il vecchino che passava davanti casa.  Noi figli, per l’occasione, eravamo stati istruiti a dovere. Mia madre, che solitamente  era molto dolce e comprensiva, si dimostrava intransigente sul  comportamento. Dovevamo essere silenziosi, educati, cortesi, quasi invisibili. Nessuna deroga sarebbe stata tollerata. Avevo nove anni io e undici mio fratello.

Quel san Giuseppe improvvisato, seduto a tavola, aveva un’aria molto decorosa, dignitosa anche se un po’sperduta. Andava tutto benissimo e noi eravamo orgogliosi di noi stessi.  Mia madre ci guardava con approvazione e gli ospiti erano a loro agio. Il pranzo procedeva magnificamente quando, all’improvviso, quel vecchino pago forse di quanto fino ad allora aveva mangiato e pensando magari agli amici gatti, cominciò,  con estrema naturalezza, ad infilare nelle tasche della giacca le polpette che aveva nel piatto davanti a lui. Noi guardavamo e non credevamo ai nostri occhi. Quella scena, rimasta indelebile nella mia mente, ebbe su me e mio fratello lo stesso effetto che provocano gli argini di una diga che cedono improvvisamente e l’acqua, fino ad allora calma e tranquilla, diventa  impetuosa e prorompente, travolge  e sommerge  tutto quello che incontra. Il nostro comportamento, fino ad allora irreprensibile ed encomiabile, miseramente smise di esserlo per lasciare posto ad un ridere scomposto che ci costrinse ad alzarci velocemente e  riparare nella stanza vicina, da dove ci fu impossibile uscire per un po’.

Da quel giorno, quando quel vecchino passava, lo guardavamo con occhi  diversi, come se fosse entrato, oltre che nella nostra casa, anche un po’ nella nostra vita. Mi capitò poi di rivederlo tempo dopo, ancora una volta nelle vesti di san Giuseppe, in una tavolata organizzata  nella piazza del paese.  Allora il 19 di marzo era  festa nazionale e non si andava a scuola.

Non ho mai conosciuto la sua storia, il suo nome o saputo se avesse mai avuto una famiglia. Non ricordo neanche quando, da quella strada, non passò più assieme agli inseparabili gatti.  Per me, però, era ed è rimasto quel  san Giuseppe che a casa mia, con tutta la sua compostezza e dignità, infilava polpette nelle tasche.

                                                                                                                     Brigida Bellomo
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1 commento:

  1. Quanti ricordi che affiorano nella mia mente, emozioni a non finire che mi riportano ai miei anni più spensierati,sembrano passati secoli da quella 'festa' in casa nostra, mi ritrovo al nord Italia dove nessuna festa mi da emozioni come quelle vissute in certi paesi del sud,io lo ricordo bene San Giuseppe,sempre educato, salutava tutte le volte che passava,ricodo anche il palco preparato in piazza castello, dove lui si riempiva le tasche di ogni cosa. Che dire... era festa per tutti.

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