Lo vedevo passare ogni
giorno davanti casa accompagnato da uno stuolo di gatti. Camminava a passi
lenti, misurati, affidando ad un bastone
la stabilità del suo incedere. Era un vecchino piccolo di statura e
magro, infagottato in una giacca dal colore incerto, di almeno due taglie più
grande. Viveva da solo, ma aveva la
compagnia di tutti i gatti randagi del circondario che aveva adottato.
Stava a contatto più con loro che con gli
umani. La sua casa, ad un centinaio di
metri salendo su per la strada dove abitavo, era una sorta di magazzino a
pianterreno, dove ammassava tutto quello
che riusciva a raccogliere. Se ci si trovava a passare da lì ed era una bella
giornata, capitava, a volte, di vederlo seduto fuori a prendere il sole
attorniato dai suoi gatti con cui, solitamente, divideva i pasti. Non di rado
lo si vedeva salire con scatole e scatoloni di cartone raccattati in giro per
il paese. Aveva poi una singolare
abitudine, quella di prendere tutte le
immaginette di santi e i pezzetti di carta che trovava in giro e infilarli,
dopo averli ripiegati con cura, nelle fenditure dei muri delle case vecchie.
Quando scendeva giù per la strada era
preceduto da almeno due, tre
gatti che lo scortavano fino ad un certo punto, e poi se ne tornavano
indietro, troppo pigri, forse, per proseguire o semplicemente perché il loro
compito finiva lì. Lo andavano poi a riprendere quando risaliva. Era questa una
cosa veramente strabiliante. Come riuscissero a prevedere il momento del
rientro era proprio un mistero. Il suo modo di respirare somigliava al ronfare
di un gatto e noi bambini pensavamo fosse causato proprio dallo stretto
contatto con i felini. Non ne conoscevamo il nome e neanche la voce, per noi
era semplicemente san Giuseppe. Questo perché una volta mia madre, come ex voto
a san Giuseppe, a cui era devotissima, aveva allestito una tavolata, invitando,
tra gli altri, anche lui, il vecchino che passava davanti casa. Noi figli, per l’occasione, eravamo stati
istruiti a dovere. Mia madre, che solitamente
era molto dolce e comprensiva, si dimostrava intransigente sul comportamento. Dovevamo essere silenziosi,
educati, cortesi, quasi invisibili. Nessuna deroga sarebbe stata tollerata.
Avevo nove anni io e undici mio fratello.
Quel san Giuseppe
improvvisato, seduto a tavola, aveva un’aria molto decorosa, dignitosa anche se
un po’sperduta. Andava tutto benissimo e noi eravamo orgogliosi di noi
stessi. Mia madre ci guardava con
approvazione e gli ospiti erano a loro agio. Il pranzo procedeva magnificamente
quando, all’improvviso, quel vecchino pago forse di quanto fino ad allora aveva
mangiato e pensando magari agli amici gatti, cominciò, con estrema naturalezza, ad infilare nelle
tasche della giacca le polpette che aveva nel piatto davanti a lui. Noi
guardavamo e non credevamo ai nostri occhi. Quella scena, rimasta indelebile
nella mia mente, ebbe su me e mio fratello lo stesso effetto che provocano gli
argini di una diga che cedono improvvisamente e l’acqua, fino ad allora calma e
tranquilla, diventa impetuosa e prorompente,
travolge e sommerge tutto quello che incontra. Il nostro
comportamento, fino ad allora irreprensibile ed encomiabile, miseramente smise
di esserlo per lasciare posto ad un ridere scomposto che ci costrinse ad
alzarci velocemente e riparare nella
stanza vicina, da dove ci fu impossibile uscire per un po’.
Da quel giorno, quando
quel vecchino passava, lo guardavamo con occhi
diversi, come se fosse entrato, oltre che nella nostra casa, anche un
po’ nella nostra vita. Mi capitò poi di rivederlo tempo dopo, ancora una volta
nelle vesti di san Giuseppe, in una tavolata organizzata nella piazza del paese. Allora il 19 di marzo era festa nazionale e non si andava a scuola.
Non ho mai conosciuto
la sua storia, il suo nome o saputo se avesse mai avuto una famiglia. Non
ricordo neanche quando, da quella strada, non passò più assieme agli
inseparabili gatti. Per me, però, era ed
è rimasto quel san Giuseppe che a casa
mia, con tutta la sua compostezza e dignità, infilava polpette nelle tasche.
Brigida Bellomo