giovedì 20 dicembre 2012

LA FAVOLA DEL PAESE DORMIENTE (e di un suo abitante)


C’era una volta, non tanto lontano da qui, e non tanto lontano dal mare, un paese molto bello. Tanto bello che nessuno voleva lasciarlo. E, il solo pensiero, faceva scorrere, giù per il viso, lacrime salatissime a chiunque. Un piccolo paese in collina che, come tanti paesi del sud, viveva di sole, di terra,  e di fatica. Gli abitanti  erano dei grandi lavoratori,  gente semplice,  vera, di poche parole che  lavorava dall’alba al tramonto. I divertimenti erano scarsi, giusto le feste comandate e, naturalmente, quella della patrona, a cui erano devotissimi tutti. Ma  nessuno si lamentava perché, per divertirsi, bisognava avere tempo e denaro da spendere e, queste, erano le sole due cose che scarseggiavano in quel paese laborioso e assolato, ricco di tanto altro. Era un popolo fiero. Negli ultimi tempi  era sorto un problema di non poco conto: sembrava, e i fatti lo dimostravano, che tutto andasse a rotoli. Sembrava che la terra si fosse scocciata di dar frutti e si beffasse degli affanni dei suoi lavoratori. Sembrava che il tempo si fosse scordato delle stagioni. E  la pioggia, al momento giusto, una benedizione, al momento sbagliato, una catastrofe, puntualmente, arrivava al momento sbagliato. Arrivavano le gelate, quando i germogli erano teneri. Le grandinate, quando i frutti erano quasi da raccogliere. Sfumava tutto quello per cui si era lavorato tutta una stagione. E poi un anno. Di anno in anno. Mancava solo l’invasione delle cavallette. Se in campagna andava male in paese andava peggio. Nessuno costruiva, nessuno vendeva, nessuno comprava. Nessuno si capacitava. Il paese sembrava  preda di un incantesimo. E tutto, veramente tutto, si era fermato.  Come in una fotografia. Eppure bastava volgere lo sguardo nelle terre dei paesi vicini, oltreconfine, e si potevano ammirare fiori e frutti in abbondanza. Raccolti  generosi. Campagne rigogliose. Era figlio di quel paese un uomo, un vagabondo cresciuto da  solo,  ( ma, non illudiamoci, in un paese non si è mai soli ) .Era un  vagabondo paesano, nel senso che, non si allontanava mai dai confini del paese. Si chiamava Calò. Alto, fisico asciutto. Il viso bruciato dal sole. Occhi furbi. Amava cantare e, quando passava per le vie, sfoderava tutto il suo repertorio musicale,   la sua voce lo annunciava a distanza. Quando qualcosa gli andava storto, e capitava a volte, allora il registro cambiava.  Dai canti passava alle litanie dei santi. Nel qual caso , se c’era qualche bambino in giro , meglio coprirne le  innocenti orecchie. Viveva di quello che riusciva a racimolare girando  per le campagne. La mattina presto, se il tempo era buono, andava a piedi e raccoglieva tutto quello che trovava:  verdure,  legna, lumache. Si piazzava poi  all’incrocio  della piazza e aspettava pazientemente che qualcuno si avvicinasse. A volte, capitava che vendesse pure delle uova, ma, quelle, non spuntavano nei campi. E se qualche massaia se la prendeva con le proprie galline, che non  facevano uova, pazienza. Peccati veniali. Viveva da solo,  da quando la madre era sparita. Allora aveva tredici anni, o poco più. Su di lei, in paese,  si era detto di tutto. Ogni paesano aveva la sua opinione in proposito, ed era convinto di essere il depositario della verità, lui e lui solo. Poiché il paese era abitato da circa quattromila abitanti esistevano una quantità infinita di verità assolute. E ognuno poteva scegliere quella che più gli piaceva! Oppure farsene una propria prendendo un po’ qui e un po’  là. Era cresciuto in fretta, ombroso e selvatico e viveva in una piccola, povera casa spoglia. Che era stata la casa della nonna paterna, morta poco tempo prima. Quattro mura racchiudevano una stanza che era tutto: ingresso, cucina, salotto, camera da letto. Per il bagno si usciva fuori,  la porta accanto. Soffriva di una forte intolleranza all’acqua e al sapone. Una volta, da ragazzo, alcune vicine premurose erano riuscite ad acchiapparlo, lavarlo e vestirlo con abiti  freschi di bucato. Sembrava un altro. Non si riconosceva. Calò, però, non aveva apprezzato   tante attenzioni. In paese,  ancora se lo ricordano. Strepitò e corse per tutto il pomeriggio, come un indemoniato. Quell’episodio lo rese celebre tanto che, tutte le mamme, con figli affetti dalla stessa sindrome, da allora in poi, lo citavano, appellando i figli con il suo nome. Non si sapeva la sua l’età, e, a guardarlo, era  indefinibile. Quaranta, cinquant’anni forse. Un giorno,  al solito giro per le vie del paese, Calò sentì nell’aria qualcosa di diverso. Uno strano silenzio regnava per il paese che, di solito, riecheggiava di grida di bambini e voci di donne  che parlavano in confidenza da un balcone all’altro. Una vecchina,  che prendeva il sole seduta davanti all’uscio di casa, in compagnia di alcune vicine, parlava di tempi brutti che non volevano passare. Calò, a sentirla, mugugnò: “Ma quali tiempi! la curpa è di lu nomi”. Che voleva dire? Nessuno capì  e nessuno si prese la briga di approfondire. Da allora, però, capitava di sentirlo borbottare spesso. Ripeteva quella frase a tutti quelli che incontrava. Per giorni e giorni. Ma nessuno gli badava. Da piccolo,qualcuno, forse il parroco, gli aveva spiegato l’origine e il significato del nome del paese. Glielo avevano dato gli arabi che, in epoca medievale, si erano insediati  lì, dove avevano trovato un villaggio decimato dalla peste. Quel nome, col passare del tempo, era rimasto sostanzialmente uguale, solo qualche “limatura”, nel passaggio dalla pronuncia araba a quella sicula.  “Villaggio morto”, in arabo: “Rahal Maut”. “Che futuro può avere un paese che, quando nasce, è già morto?” - Questo si deve essere chiesto Calò. E, in effetti, secondo questa logica i conti tornavano. Hai voglia di lavorare , di faticare, di buttare sangue. Non c’era futuro. Pian piano si era fatta  strada la rassegnazione.  Si era allargata.  Espansa. Aveva cominciato a far parte del DNA  di quel luogo, la si respirava nell’aria, la si beveva nell’acqua delle fontane, la si mangiava a tavola con il pane. Ecco, nomen omen,  tutto spiegato. Ma, una notte, uno degli abitanti di quel paese tanto bello, non riuscendo a dormire , girandosi e rigirandosi nel letto, ebbe una rivelazione: nella sua mente, scolpite, apparvero le parole di Calò e il loro  significato esatto.  Proprio così. Mentre tutti si erano arrovellati a cercare, e a non trovare una causa per quegli accadimenti, era arrivato lui  e aveva spiegato, in due parole, la ragione di tutto. Calò, l’uomo semplice, l’uomo della strada, aveva visto e trovato, quello che tutti non avevano  saputo vedere e trovare. Colto dall’eccitazione, corse fuori per  strada  e cominciò a gridare a tutti di scendere,  sembrava un forsennato, correva, correva e gridava. Spaventati scesero tutti. In poco tempo, tutto il paese si radunò in piazza. Fu come se un velo  fosse scivolato via e avesse svelato l’incanto di quello che era stato sospeso nel tempo. Tutti seppero in quel momento cosa fare. Tutti assieme si diedero da fare. A  volte la soluzione è così semplice che ci sembra banale e la scartiamo senza neanche considerarla. Fu un lavoro a cui parteciparono uomini, donne, bambini, anziani, per giorni. Alla fine, come primo atto,venne  bandita  dal paese la parola RASSEGNAZIONE. Per legge, nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe dovuto più  rassegnarsi ad un avvenimento contrario, un accadimento, se non dopo avere provato e riprovato più volte a rimediare, aggiustare, valutando tutte le possibilità , anche le più assurde. Questo per legge. Il nome del paese poi doveva cambiare per cambiarne la storia. D’altronde era già accaduto con Malevento, dopo la sconfitta di Pirro. Non fu cambiato  tanto, ma, quel tanto che bastò per dare un impulso vitale, un corso nuovo. Tutti collaborarono e lavorarono alacremente in armonia e sintonia per un obbiettivo comune: il benessere di tutto il paese e dei suoi abitanti. Lo vollero veramente e questo fece la differenza .Meraviglia delle meraviglie. La terra cominciò a dare abbondanti frutti. Le piante sembrarono rivivere di nuova vita. In poco tempo tutto cambiò. E fu così che , come in tutte le favole, vissero tutti felici e contenti.

FINE
                                                                                                                  Brigida Bellomo
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5 commenti:

  1. bella descrizione della situazione attuale

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  2. La rassegnazione ci ha sempre fatto compagnia. Ci ha perseguitati. I risultati li vediamo adesso. Complimenti sig.ra Bellomo

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  3. Liddru Marino, preso per pazzo, potrebbe insegnare tante cose. La filosofia della vita

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  4. Un racconto che, con un velo fiabesco, vuole, da un lato, mettere in evidenza l'errore più grave che può commettere un uomo o peggio ancora una societa, che è appunto RASSEGNARSI, dove chi magari ha un'idea diversa, un modo di fare, vivere e pensare diversi, è etichettato come pazzo e di conseguenza non è mai preso in considerazione, dall'altro un invito, rafforzato dal vissero tutti felici e contenti, a non perdere la speranza, perché solo noi e solo non rassegnandoci a quello che il mondo ci impone posssiamo dare una svolta alla nostra condizione.. Bellissima,davvero!! COMPLIMENTI!!!! Adoro questo modo di scrivere!!
    S.R.

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  5. Hai pienamente ragione,la RASSEGNAZIONE è una malattia ... speriamo che Racalmuto guarisca in fretta!!

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