martedì 19 giugno 2012

Lu cahè



Alla ricerca di informatori

Non dissi a mio suocero, che usciva molto presto la mattina, che sarei andato a Racalmuto. Non pensavo che avrei dovuto far tesoro, per le mie inchieste, di sue eventuali conoscenze.
Giunsi nel piccolo centro a un’ora discreta del mattino. Dovevano essere le dieci. Ricordo il sole già alto nel cielo intenso d’azzurro, e il suo riverbero accecante sulla pietra bianca della chiesa madre, la piazza ampia dove avevo parcheggiato la macchina, il torrione smozzicato da un lato e dall’altro la scalinata del Carmine con plaghe d’ombra.
La piazza. Era lì – pensavo –  che avrei dovuto trovare miei informatori.
Tre amici discutevano tra loro nel sole. Mi sembrarono subito le persone giuste. Furono gentilissimi. Volentieri avrebbero partecipato all’inchiesta, ma stavano per andar via. Perché non andare da quei vecchietti seduti al fresco su per i larghi gradini della scalinata della Madonna del Monte?
Il consiglio fu splendido e lo seguii subito.
Di lì a qualche minuto mi trovai di fronte a un’altera figura di zolfataro in pensione. Era seduto al fresco, immerso nei suoi pensieri, teneva in mano un bastone in modo quasi ieratico, mentre un’antica consapevole fierezza gli sprizzava dagli occhi azzurri, ora a me attenti, accentuata dalla sua posizione centrale sul largo gradino.
Chi meglio di lui?

Non sapemu nenti!

Rispose cortesemente al mio saluto, ma non restò convinto dal fatto che qualcuno, il ragazzotto che potevo allora sembrare, spacciandosi per un professore universitario, potesse avere interesse nientemeno che per il dialetto. Furono questi i pensieri che gli frullarono in testa nel baleno che guizzò nei suoi occhi e nella risposta con la quale scoraggiò immediatamente la continuazione del dialogo.
Che mi rivolgessi al vicepresidente del Circolo che era lì a due passi, peraltro incuriosito dalla mia presenza e ormai pure lui sul chivalà.
Lo feci, mi rivolsi a lui, ma mi disse a sua volta di rivolgermi al presidente, anche lui attento all’insolito estraneo, dall’interno del circolo. Il presidente non poté rimandarmi a nessun Erode o Pilato e con un secco Non sapemu nenti! inibì ogni possibilità di conversazione.
Inutile far presente che provenivo da Castrofilippo, che mio suocero era di Castrofilippo e che volevo solo conoscere parole dialettali. La sua risposta non ammetteva replica.
Che fare?
Demordere no!
Mi restava l’alternativa del parroco, la speranza che questi fosse originario del luogo e che fosse disposto ad ascoltarmi.
Tornai in piazza ed entrai nella chiesa che era ancora aperta. Il prete era del luogo. L’Arciprete, padre Alfonso Puma – un intellettuale seppi poi, un raffinato pittore, amico di Sciascia – capì subito quel che volevo e si mise a disposizione.
Ne fui felice.
Ma fu felicità che durò poco. Di lì a mezzora padre Puma mi disse che, suo malgrado, avremmo dovuto interrompere l’inchiesta per un suo impegno. Un funerale, mi sembrò di capire.
Gli dissi che avrei aspettato che finisse la funzione e che, comunque,  sarei potuto tornare nel pomeriggio, l’indomani e poi ancora negli altri giorni della settimana.
Dispiaciuto, mi disse che non gli era possibile incontrarmi prima di una decina di giorni, non ricordo per quale suo impegno in curia, ad Agrigento.

L’incontro risolutore
Ero davvero rammaricato e stavo per salutare ed andare via, quando vidi brillare d’un sorriso il faccione abbronzato del sacerdote per l’ingresso di un signore in sacrestia. Me lo presentò subito. Un avvocato del luogo e anche… l’assessore alla cultura del Comune.
Nessuno meglio di lui per accedere alla simpatia dei racalmutesi, pensai. Ed era quello che aveva già pensato l’Arciprete.
Il passaggio di consegne fu immediato e poco dopo mi ritrovai sulla strada in direzione della scala dei vecchietti e, inspiegabilmente, a braccetto dell’assessore. Mi rifiutai di tornare dai nostri vecchietti, raccontando all’assessore dell’incontro poco felice di qualche ora prima.
E l’assessore affabilmente, ma fermamente:
– Professore, Lei vuole fare l’inchiesta?
Una domanda retorica che mise subito a tacere il mio orgoglio.
Giunti di fronte ai vecchietti – altri se ne erano adunati attorno a quello con gli occhi azzurri –, mi ritrovai con la mano dell’assessore sulla spalla che mi presentò dicendo:
– Questo è amico mio. Parlate pure!
La sua strategia, a braccetto prima e poi con la mano sulla mia spalla, mi fu subito chiara.
Parlammo, parlammo a lungo. Esaurii in più giorni i questionari del Vocabolario Siciliano. E il vecchietto dagli occhi azzurri sostenne con gioia e fino alla fine la conversazione.
Diventammo amici. Mi chiese dove abitassi – forse nella stessa Racalmuto, pensava, visto che tornavo due volte al giorno e per più giorni. Fu felice di sapermi a Castrofilippo, dove conosceva tante persone.

Li favi e la farrubba

Proprio l’ultimo giorno, quando il sole picchiava sulla scalinata del Monte e stavo per andare via, mi accorsi di una domanda non fatta: le fave, come chiamate le fave a Racalmuto?
La domanda la posi per scrupolo. Che risultato avrei potuto aspettarmi?
E il vecchietto mi rispose: – Li favi.
Subito dopo, PERò, mentre un lampo geniale gli guizzava negli occhi:
– Ma lo sa che al quartiere Carmine si dice li havi?
Fortuna che l’ora era ancora buona e potei correre subito al Carmine, dove non incontrai informatori disponibili, ma uno studente dell’università di Palermo, Piero Carbone, ora raffinato poeta in dialetto, che subito e poi anche nel pomeriggio mi accompagnò in giro, a sentire la gente parlare.
Non trovammo subito li havi, ma qualcuno volle però offrirci lu cahè e ascoltammo tutte le persone che potemmo per la via centrale e per i bar con l’impressione che la gente ci mettesse poco forza nell’articolare la f, in qualsiasi posizione.
Poi, prima di rientrare a Castrofilippo, entrai nella farmacia locale, per comprare i pannolini al mio bambino.
Qui, un vecchio rinsecchito dal sole, mostrava nello sguardo la sospensione di un dialogo già avviato con la farmacista. Infatti, quando questa tornò al banco, porgendogli il piccolo involto, gli raccomandò con voce suadente:
– Se le deve fare le iniezioni, se le deve fare, se vuole guarire!
E lui, di rimando, sicuramente convinto dall’esortazione della farmacista:
Mmah!… Ca si mi l’à-hhari mi li hazzu! Mah!… che se me l’ho a fare, me le faccio!
Non disse più nulla, ma fu per me quella risposta la testimonianza più bella, la prova più stringente di quel suono: l’h invece dell’f. Più ancora del cahè degustato qualche ora prima.
Comunicai a Piero Carbone il mio ritorno a Racalmuto per l’indomani e approntai nella notte un questionario specifico.
Incontrammo – l’indomani – una persona di cui serbo grata la memoria, il prof. Nicolò Macaluso, insegnante elementare in pensione, che ci portò a casa e collaborò attivamente all’inchiesta, insieme alla moglie, pure lei maestra in pensione. Conoscevano bene quella pronuncia e ne facevano uso.


Conclusioni dello studioso

Raccolti tutti i materiali possibili, mi era ormai chiaro che a Racalmuto la doppia pronuncia harrubba/farrubba era il diverso modo di di adattare l’ar. h a r r ū b: varianti fonetiche che non escludono, nell’area, il tradizionale e più diffuso carrubba: tre pronunce che in tempi diversi si sono contese la palma della popolarità, salendo e scendendo sul podio dell’uso varie volte. Come avviene ancora a Pantelleria, dove le tre pronunce hanno rilevanza sociolinguistica.
La stessa cosa è avvenuta a Ragusa – da lì eravamo partiti –  dove si sono contese il campo forme con f e forme con k. Da disapprovare le forme con f perché sentite come contadinesche. Al punto che anche fasola con f etimologico poté diventare casola.
Il problema di Ragusa si era  risolto a Racalmuto. E grande fu il merito del vecchietto racalmutese dagli occhi azzurri, che non ebbi più modo di ringraziare.
Dopo qualche anno, a un incontro culturale a Racalmuto, ho potuto raccontare l’intera vicenda. Il caro vecchietto non c’era.
E l’f per k, oltre che h, non è solo la risposta siciliana alle parole dell’arabo che presentano un suono per così dire “aspirato” (ma fricativo velare o postvelare in realtà), ma anche a parole bizantine, del francese antico e dell’inglese d’America con analoghi suoni, come poi ebbi modo di illustrare in un lavoro che vide la luce nel 1995, sul num. 18 del “Bollettino del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani” (pp. 279-93): un fenomeno che è molto più di “un’alterazione seriore e meno avvertita” come aveva scritto più di un secolo prima Corrado Avolio, se di esso bisogna tener conto – la letteratura non è avara – nello studiare il contatto delle lingue romanze con altri sistemi linguistici.

                                                                                         Salvatore C. Trovato (Università di Catania)

Il post, riveduto dallo stesso autore e adattato a un pubblico non specialista è pubblicato nella sua redazione originaria nel vol. Per i linguisti del nuovo millennio. Scritti in onore di Giovanni Ruffino a cura del Gruppo di ricerca dell’Atlante Linguistico della Sicilia,  Palermo, Sellerio, 2011, pp. 93-99. Nuova è la titolazione e la stessa paragrafazione.




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4 commenti:

  1. Vivo in Calabria. Nel catanzarese si dice a himmina, u hafè.
    Alberto

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  2. Padre Puma era un uomo avanti,
    mi ha fatto piacere leggere di lui.
    giusi

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  3. Interessantissimo articolo, spero poter leggere il libro consigliato

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  4. Mi complimento col prof. Trovato,che purtroppo non conosco, per la grande competenza e la semplicità nello scivere. Articolo molto piacevole, da leggere tutto d'un fiato.
    Maria

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